Come Atena, la cancel culture è nata in Libia, con Gheddafi
Ci sarà da fare con la cancel
culture per cancellare e scalpellare. Ma
tutti aveva preceduto il disprezzato Gheddafi: quanto lavoro per gli
scalpellini aveva mobilitato, a Sabratha, e al museo di Tripoli.
L’antecedente è narrato in Astolfo, “Non
c’è anarchico felice”:
“A Sabratha il guardiano suda
copiosamente, impegnato a scalpellare di lena, accosciato sui talloni. È il genius
loci, il concilio di Cartagine aveva già deciso di abbattere le statue,
gli edifici, e pure gli alberi. Il guardiano non lo sa, ma è per questo che
fatica, anche se nessuno glielo chiede, credendo di obbedire a un appello del
suo colonnello. Bernardo insegnava a Chiaravalle che, se si raschia il testo di
una pergamena, si può finire per distruggere la pergamena stessa, tanto più
quanto essa è imbevuta dell’inchiostro che si vuole cancellare, della memoria.
La memoria è scrigno e congegno, la macchina e i suoi possibili usi. Butros
Ghali ricorda che il califfo Omar, secondo lo storico egiziano Ibn al Qifti,
fece bruciare la biblioteca di Alessandria ragionando: se i libri ripetono il Corano sono inutili, se se ne discostano
sono blasfemi. Il colonne-lo, dunque, e il guardiano continuano la tradizione.
Bernardo di Chiaravalle consigliava, qualore fosse proprio necessario, di separare
le funzioni della memoria, riadattandone i contenuti a nuovi percorsi, a nuove
dottrine, senza cancellarli. È la funzione della storia. Ma è una buona cosa?
“Il
guardiano si erge all’arrivo dei visitatori, e chiede senza fiato:
“-
Che c’è scritto qui? – di una lapide per un bambino. Gli accenti stranieri lo
rinfrancano, si prende una pausa sradicando le piante secche, non ha la ferocia
che s’immagina dei cinesi, che la pratica hanno avviato. L’arte ha esiti sicuramente
terapeutici, quasi taumaturgici. La pietra stessa diventa nell’arte più pietra.
E le iscrizioni devono possedere magia potente, ancorché illeggibili. Ricordava
in Iran il poeta Shamlù che gli assiri di Urmia scorticavano gli inglesi quando
li beccavano a trascrivere antiche iscrizioni. Non le loro, gli assiri erano
arrivati nella regione non prima del settimo secolo. Che poi, partiti gli inglesi,
hanno lasciato ai curdi, i quali la abitavano prima e non avevano cessato di
combatterli. Pure i Borbone di Napoli proibivano la trascrizione delle lapidi a
Pompei.
“Si
tornerà forse agli splendori greci, se è vero, come Graves vuole, che Atena e
Atene vengono dalla Libia, dalla dea Neith invertita. Ma per ora c’è un problema
di scalpellini: partiti gli italiani, in Libia non se ne trovano. Si cercano in
Tunisia, con l’Egitto i rapporti non sono buoni, per la storia del Pazzo, di Gheddafi
noto al Cairo come il Pazzo. Resta solido, non recando iscrizioni, il cesso
circolare che di Sabratha è l’emblema, come un coro con gli stalli: molta
storia romana è conviviale, e molta convivialità occorreva al cesso, impenetrabile
ai rumori e agli olezzi. Nella Guerra
ebraica di Giuseppe Flavio i dissidi
sotto Cumano, nei quali perirono diecimila ebrei, insorsero quando un soldato
di guardia sul colonnato del tempio, durante la festa del pane azzimo, si tirò
su la tunica, volse il culo alla folla inchinandosi, e scoreggiò. Qual’è il
senso della storia? Troppe cose i romani facevano col culo, ma alcune gli
riuscivano.
…………………….
“A
Tripoli l’ambasciata Usa è chiusa. Solo emerge da una porta blindata, dietro
una griglia d’acciaio, un giocatore di football nero:
“- Abbiamo duemila passaporti da
controllare – bisbiglia, fresco nella maglietta: - i visti degli studenti. – Eccetto
quelli che sono a scuola di petrolio dall’Ente, i libici che studiano vanno
quindi negli Usa. Già nel 1802
Jefferson aveva sorpreso tutti inviando la flotta contro i pirati di Tripoli.
Cui rischiò di regalare il pezzo forte, la fregata “Philadelphia”, non fosse
stato per il nocchiero Catalano, un siciliano, che la autoaffondò.
“Infermiere pachistane, di scuola
britannica, competenti cioè e discrete - la nurse fa parte della
terapia, per l’infatuazione che rinnova nel degente la voglia di salute - e a
Tripoli più che leggiadre, ma vincolate alla continenza anche dello sguardo, sostituiscono
le suore. Con stipendio da espatriate. Nonché le infermiere e gli scalpellini,
ogni servizio va ora pagato in Libia in buone sterline, quella locale vale tre
volte la britannica: lo stagnaro, l’elettricista, tutti tecnici espatriati –
trascurato è il principio che poveri, risparmio e ricchezza si nutrono di
moneta frazionata. Il colonnello Gheddafi ha aperto un giro di valzer con la
Francia, malgrado il Fezzan, sperando in un invito a Parigi, nessuno lo vuole.
Neppure l’onorevole Moro, che continua a ignorarlo, non un gesto, un saluto,
una letterina, niente, e sono sei mesi ormi che sta al potere, anche di più. Ma
i rapporti restano saldi, i libici vanno lo stesso a divertirsi a Roma, con le
carissime fidanzate del Cavalieri Hilton.
““Psst, psst”, un signore s’accosta sul
lungomare Italo Balbo. Un principe Caramanli, assicura. Dirige il museo romano,
che il regime ha dimenticato, e custodisce nei sotterranei, dietro cancellate
rumorose di catenacci, le lapidi fasciste, straripanti di “Italiani!” in grossi
bastoni tutti alti e di numeri romani, cui il visitatore coartato non può
rifiutarsi – il principe è un oppositore. Fanariota, cattolico quindi di Costantinopoli,
innamorato per questo disperato, confida, di una nurse musulmana”.
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