Dante in Francia
Una raccolta di saggi, sugli echi
d’Italia nelle lettere francesi, e di Francia in quelle italiane, che prende il
titolo da quello più appuntito e più aggiornato, all’anno di pubblicazione,
1951. Un accostamento bizzarro ma vero. Balzac sceglie, dopo tanti altri nomi
progettati, quello dantesco di “Commedia umana” per i suoi cicli di romanzi, di
costumi, analitici, filosofici, eccetera, della vita privata, parigina, di
provincia, dei parenti poveri. Dopo avere ascoltato nel 1845 a palazzo Farnese
a Roma il principe Michelangelo Caetani - al quale dedicherà l’anno dopo “La
cugina Betta” – sulla struttura ideale e di pensiero che sostiene la “Commedia”
dantesca.
Nell’opera di Balzac molti sono
qua e là i richiami a Dante, anche se di Dante Balzac non ebbe, o non coltivò,
una conoscenza approfondita (ma chi e che poteva Balzac approfondire, che
scrisse 137 libri di romanzi e racconti in vent’anni - con 2.209 personaggi
secondo wikipedia?). Lugli ne rintraccia un paio di dozzine. Perfino, in “La
vie et les aventures d’une Idée”, 1834, incompiuto, che doveva far parte degli
“Studi filosofici”, una traccia del “Dante mussulmano”, in quanto “pontiere” tra
Oriente e Occidente. Soprattutto, a un influsso diretto di Dante Lugli può
ascrivere il “Livre mystique” del 1835, con i tre racconti “I proscritti” (su
Dante esule a Parigi), “Louis Lambert” e “Séraphita”.
Un rapporto un po’ speciale, questo
con Balzac, nelle fortune alterne di Dante in Francia – prima degli ultimi
decenni evidentemente, con le traduzioni nuove e diffuse di Jacqueline Risset, René de Ceccaty (in ottonari…),
Danièle Robert. Praticamente sconosciuto in Francia fino all’Ottocento. Se non,
ricorda Lugli, per l’odio guelfo, impersonato dal cardinale Bertrand du
Pouget - Bertrando del Poggetto, l’“angelo della pace” di papa Clemente XII,
che con una truppa di mercenari tra il 1320 e il 1327 sconfisse i principati
ghibellini, e guelfi-ghibellini come Dante, ad Asti, Pavia, Piacenza e Parma,
riprendendo per ultimo anche Bologna. E per le citazioni – “immagini e
sentenze” - di cui Christine de Pisan a fine Trecento-primi Quattrocento ha
infiorettato i suoi poemi, senza peraltro, più spesso, riferimenti alla fonte.
E poi, nel primo Cinquecento, Marguerite de Navarre, la sorella di Francesco I.
Sconosciuto agli italinisants, Du Bellay, Ronsard,
Montaigne. Indigesto a Flaubert e Lamartine – che però se ne ispira per il
grande poema, “la mia epopea dell’anima”, che avrebbe voluto e non ha scritto,
eccetto due frammenti, “Chute d’un ange” e “Jocelyn” (ma sempre dall’alto:
“Dante ha iscritto il suo nome a caratteri di fuoco sull’immaginazione dei
secoli” e “un grand’uomo e un cattivo poeta, un uomo più grande del suo
poema”). Poco amato dallo Chateaubriand del “Genio del cristianesimo” – sopra
Dante metteva Tasso e Milton. Recuperato tardi, da Delacroix, al Salon di
pittura del 1820, con la “Barca di Caronte”, che fece sensazione. Quindi, un
po’, da Victor Hugo, e soprattutto da Balzac, infine da Sainte-Beuve.
Manca nella rassegna di Lugli
Gustave Doré, che sulla “Commedia” fece un grosso investimento, rischioso, nel
1861, con l’editore Hachette, per un in
folio di 156 incisioni – manca pure Théophile Gautier, che sostenne Doré nell’impresa.
Ma c’è naturalmente molto altro, da francesista un po’ datato, ma di larghe
conoscenze. E di critico, con due saggi su Tommaseo, sul romanzo, “Fede e
bellezza”, e uno su Carducci. Con echi di Francia un po’ stiracchiati,
soprattuto nei riguardi degli italiani che hanno vissuto in Francia, come
Tommaseo (con Tommaseo c’è, apprezzata, anche “Giorgio” Sand), o a cui si
sforza di dare un’apertura oltralpe, come Carducci. Quest’ultimo medaglione è meritevole,
se non altro, per il fatto che non si dice di “Marchesa Colombi”: una
cacciatrice d’uomini, milanese, scesa a Bologna a corteggiare Carducci, che
dovette accontentarsi di Panzacchi.
Una
curiosità, Boccaccio in Courteline. Assortita dalla fortuna di Boccaccio in
Francia nell’Ottocento. E una disamina ancora interessante fra i due “Mastro
don Gesualdo” di Verga, quello a puntate del secondo semestre del 1888, e quello, “affatto
nuovo” come lo annunciava l’editore Treves a metà dell’anno successivo, e pubblicato
a novembre. “La monaca di Monza e una pagina di Bossuet” è un repertorio di
donne celebri “monacate” su cui Manzoni potrebbe essersi ispirato. A partire da
Jacqueline Arnauld, sorella del Grande Arnauld, poi madre Angélique e badessa
di Port Royal, individuata per primo da Pietro Paolo Trompeo – la lista è
lunga. Non manca Proust: come visto, criticamente, da Gide. E un seminale, dopo
settant’anni. “Stile indiretto libero”, tra La Fontaine e Flaubert, e poi in
Zola (meccanico),Verga, D’Annunzio (tedioso), con “gli accenni precorritori del
Manzoni e del Nievo”, il saggio più interessante dopo quello del titolo.
Di
buona (vecchia?) erudizone il discorso semiserio tenuto all’Accademia delle
Scienze dell’Istituto di Bologna il 9 gennaio 1949 e intitolato “Il senso di
una poesia”, sul “perché non c’è una poesia francese”.
Vittorio Lugli, Dante e Balzac, pp. 349, free online
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