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Donne ribelli, ai padri e alle mafie
Si è ripubblicato il libro
fortunato di Abbate in prossimità dell’8 marzo, con visi accattivanti in
copertina, ed ha fatto la fortuna dei giornalai. Il che è una buona cosa,
ottima. Ma la rilettura dieci anni dopo delude invece di entusiasmare, pone
problemi invece di risolverli.
Il sottotitolo è “come le donne salveranno
il Paese dalla ‘ndrangheta”. Il racconto è diverso. È di donne, di donne di mafia,
innamorate, variamente innamorate. “Vivere, amare, morire ai tempi della
‘ndrangheta”, come recita uno dei capitoletti. Storie di donne che hanno “una
storia”, anche più di una, benché donne di mafia, figlie, mogli, tenute per
questo suppostamente alla fedeltà coniugale a qualsiasi costo, benché
trascurate e anche se maltrattate. Donne sposate giovanissime, che fanno due e
tre bambini, e a 24 anni s’innamorano, di solito quando il marito è in carcere
– anche via internet. Donne eroine, alcune, comunque vittime, e donne cattivissime
altre, vedove e madri.
Storie personali. Anche
avvincenti, benché di persone ordinarie, ma incongrue. Non buone per analisi stereotipe,
quali qui e là Abbate azzarda, di società patriarcali e delitti d’onore. “Tra i
comuni di Filadelfia, Curinga, Francavilla e Pizzo Calabro sono sparite negli ultimi
anni oltre quaranta persone”, alcune probabilmente “a causa della loro relazione
con una donna, sempre la stessa”. Sicuro? Donne sposate a 16 anni, dopo una o due
“fuitine”, “anche contro la volontà delle famiglie”. È possibile, che mafie
sono?
Il sottotitolo è giusto (a San
Luca, per esempio, è successo, dopo Duisburg), comunque beneaugurante. Ma, aprendo
il libro, per un motivo triste: non ci salveranno i Carabinieri, non i giudici
– non l’apparato repressivo né la giustizia. Abbate scopre le pentite di ‘ndrangheta,
o meglio del clan Pesce-Bellocco di Rosarno, per essere stato richiamato in
Calabria dall’assassinio di un amato cugino. Che, scopre, i Carabinieri non
indagano. Mentre la Procura dà la colpa al morto. Non solo i Carabinieri
locali, anche il capitano dei Carabinieri non ritiene l’assassinio meritevole
di indagini. Portando Abbate a concludere alla terza pagina: “In molte zone della
Calabria, purtroppo, l’amministrazione della giustizia non sempre risponde ai
principi di efficienza e equità che lo Stato dovrebbe salvaguardare”. Che è il
problema della Calabria, senza dubbio.
Il Grande Mafioso di Rosarno, subito
poi Abbate scopre, un fanfarone, specialista in “fuitine” con ragazze puberi, è
un informatore dei Carabinieri: ogni tanto fa arrestare qualcuno, anche suoi parenti,
per affermare il suo potere. Ma il pregiudizio fa aggio. E il cronista
palermitano, assiduo indagatore della mafia, si prospetta “una Calabria molto
più crudele di quanto possiamo immaginare” - così strilla in copertina La
Licata, altro palermitano cronista dei misfatti mafiosi. Al confronto, conclude
Abbate, a Palermo tutto è cambiato: “La società civile si è ribellata, sollevando
un coro di voci indignate e schierandosi apertamente contro il potere di Cosa
Nostra”. Non come in Calabria, intende dire. Mentre racconta commosso dei
concorsi “Impegno scuola legalità” al liceo Piria di Rosarno.
A Palermo è tutto cambiato? È stato
abbattuto Totò Rina, la sua mafia sanguinaria. Palermo era civile anche prima –
la società è civile, per definizione. Solo nessuno la proteggeva.
Giusy Pesce, su cui soprattutto è centrata
la narrazione, è figlia e moglie maltrattata, benché suo padre sia un boss, si
annoia, s’innamora, è arrestata, tenta il suicidio, infine “si pente”, collabora
con la giudice Cerreti, poi si pente di essersi pentita. Sono storie personali più
che emblematiche. La moglie di Francesco Pesce, il più “terribile” della
famiglia, sposata in una delle tante “fuitine” con cui il boss andava a donne,
lo lascia dopo un anno, con matrimonio perfino annullato dalla Sacra Rota, e
non succede niente. Ma il tema ossessivo della narrazione è il delitto d’onore: il padre, lo zio o il fratello che sfregia o uccide la fedifraga. Una Calabria
immaginaria, oltre che poco appetibile.
Ma anche le tragedie di queste
donne Abbate subito dimentica, ingabbiato nell’oleografia, della Calabria di
maniera. Le famiglie Pesce e Bellocco sono la Calabria. E sono ricche e potenti
anche se la matriarca vive in una baracca. Rosarno, cittadina che ha sempre
votato a sinistra, è mafiosa: “In tutta Palermo non ci sono tanti affiliati (di mafia) quanti a Rosarno”. Possibile? Un buon reportage di un giornalista che finalmente è andato di persona a Rosarno sarebbe stato di spiegare che la rivolta
degli africani accampati nella campagna per la raccolta degli agrumi si è avuta
a Rosarno, invece che in un altro dei tanti analoghi campi di tutta Italia, perché
a Rosarno c’è sempre tato un forte sindacalismo bracciantile.
Oppure, attorno a Giusy Pesce,
delineare il contorno visibile invece di quello di questura, della “pentita” di
mafia. Il conto di Giusy Pesce è semplice - in questo ben calabrese, matter-of-fact: la mafia non paga. In
carcere ci arriva presto. Il figlio può vedere destinato al carcere, o con la
pistola in mano. Le due figlie sposate adolescenti a uomini di ‘ndrangheta - il
suo stesso destino: angariate e senza gioia.
Si dice delle mafie che si
riproducono per discendenza, come nelle famiglie reali. Ma non è vero, in nessuna
mafia. Solo in Calabria, e solo con la Repubblica. Con la seconda parte della
Repubblica, quando si è potuto, tuttora si può, essere famiglie mafiose per due
e anche tre generazioni. In Calabria i mafiosi ereditano, non c’è l’analogo
altrove. I Carabinieri tengono le statistiche, le illustrano anche, in alberi
genealogici dettagliati e precisi. Che sembra garantismo, ma è uno strano, per
così dire, modo di gestire la giustizia. Anche se la repressione sarebbe
facile. Le donne ribelli di mafia, in questo il libro è chiaro, tutte giovani e
giovanissime, ancora immuni al prudente “calcolo” della giustizia italiana, lo
sanno: che vita è questa?
Lirio Abbate, Fimmini ribelli, la Repubblica-L’Espresso,
pp. 207 € 9,90
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