venerdì 12 marzo 2021

Donne ribelli, ai padri e alle mafie

Si è ripubblicato il libro fortunato di Abbate in prossimità dell’8 marzo, con visi accattivanti in copertina, ed ha fatto la fortuna dei giornalai. Il che è una buona cosa, ottima. Ma la rilettura dieci anni dopo delude invece di entusiasmare, pone problemi invece di risolverli.
Il sottotitolo è “come le donne salveranno il Paese dalla ‘ndrangheta”. Il racconto è diverso. È di donne, di donne di mafia, innamorate, variamente innamorate. “Vivere, amare, morire ai tempi della ‘ndrangheta”, come recita uno dei capitoletti. Storie di donne che hanno “una storia”, anche più di una, benché donne di mafia, figlie, mogli, tenute per questo suppostamente alla fedeltà coniugale a qualsiasi costo, benché trascurate e anche se maltrattate. Donne sposate giovanissime, che fanno due e tre bambini, e a 24 anni s’innamorano, di solito quando il marito è in carcere – anche via internet. Donne eroine, alcune, comunque vittime, e donne cattivissime altre, vedove e madri.
Storie personali. Anche avvincenti, benché di persone ordinarie, ma incongrue. Non buone per analisi stereotipe, quali qui e là Abbate azzarda, di società patriarcali e delitti d’onore. “Tra i comuni di Filadelfia, Curinga, Francavilla e Pizzo Calabro sono sparite negli ultimi anni oltre quaranta persone”, alcune probabilmente “a causa della loro relazione con una donna, sempre la stessa”. Sicuro? Donne sposate a 16 anni, dopo una o due “fuitine”, “anche contro la volontà delle famiglie”. È possibile, che mafie sono?
Il sottotitolo è giusto (a San Luca, per esempio, è successo, dopo Duisburg), comunque beneaugurante. Ma, aprendo il libro, per un motivo triste: non ci salveranno i Carabinieri, non i giudici – non l’apparato repressivo né la giustizia. Abbate scopre le pentite di ‘ndrangheta, o meglio del clan Pesce-Bellocco di Rosarno, per essere stato richiamato in Calabria dall’assassinio di un amato cugino. Che, scopre, i Carabinieri non indagano. Mentre la Procura dà la colpa al morto. Non solo i Carabinieri locali, anche il capitano dei Carabinieri non ritiene l’assassinio meritevole di indagini. Portando Abbate a concludere alla terza pagina: “In molte zone della Calabria, purtroppo, l’amministrazione della giustizia non sempre risponde ai principi di efficienza e equità che lo Stato dovrebbe salvaguardare”. Che è il problema della Calabria, senza dubbio.
Il Grande Mafioso di Rosarno, subito poi Abbate scopre, un fanfarone, specialista in “fuitine” con ragazze puberi, è un informatore dei Carabinieri: ogni tanto fa arrestare qualcuno, anche suoi parenti, per affermare il suo potere. Ma il pregiudizio fa aggio. E il cronista palermitano, assiduo indagatore della mafia, si prospetta “una Calabria molto più crudele di quanto possiamo immaginare” - così strilla in copertina La Licata, altro palermitano cronista dei misfatti mafiosi. Al confronto, conclude Abbate, a Palermo tutto è cambiato: “La società civile si è ribellata, sollevando un coro di voci indignate e schierandosi apertamente contro il potere di Cosa Nostra”. Non come in Calabria, intende dire. Mentre racconta commosso dei concorsi “Impegno scuola legalità” al liceo Piria di Rosarno.
A Palermo è tutto cambiato? È stato abbattuto Totò Rina, la sua mafia sanguinaria. Palermo era civile anche prima – la società è civile, per definizione. Solo nessuno la proteggeva.
Giusy Pesce, su cui soprattutto è centrata la narrazione, è figlia e moglie maltrattata, benché suo padre sia un boss, si annoia, s’innamora, è arrestata, tenta il suicidio, infine “si pente”, collabora con la giudice Cerreti, poi si pente di essersi pentita. Sono storie personali più che emblematiche. La moglie di Francesco Pesce, il più “terribile” della famiglia, sposata in una delle tante “fuitine” con cui il boss andava a donne, lo lascia dopo un anno, con matrimonio perfino annullato dalla Sacra Rota, e non succede niente. Ma il tema ossessivo della narrazione è il delitto d’onore: il padre, lo zio o il fratello che sfregia o uccide la fedifraga. Una Calabria immaginaria, oltre che poco appetibile.
Ma anche le tragedie di queste donne Abbate subito dimentica, ingabbiato nell’oleografia, della Calabria di maniera. Le famiglie Pesce e Bellocco sono la Calabria. E sono ricche e potenti anche se la matriarca vive in una baracca. Rosarno, cittadina che ha sempre votato a sinistra, è mafiosa: “In tutta Palermo non ci sono tanti affiliati (di mafia) quanti a Rosarno”. Possibile? Un buon reportage di un giornalista che finalmente è andato di persona a Rosarno  sarebbe stato di spiegare che la rivolta degli africani accampati nella campagna per la raccolta degli agrumi si è avuta a Rosarno, invece che in un altro dei tanti analoghi campi di tutta Italia, perché a Rosarno c’è sempre tato un forte sindacalismo bracciantile.
Oppure, attorno a Giusy Pesce, delineare il contorno visibile invece di quello di questura, della “pentita” di mafia. Il conto di Giusy Pesce è semplice - in questo ben calabrese, matter-of-fact: la mafia non paga. In carcere ci arriva presto. Il figlio può vedere destinato al carcere, o con la pistola in mano. Le due figlie sposate adolescenti a uomini di ‘ndrangheta - il suo stesso destino: angariate e senza gioia.
Si dice delle mafie che si riproducono per discendenza, come nelle famiglie reali. Ma non è vero, in nessuna mafia. Solo in Calabria, e solo con la Repubblica. Con la seconda parte della Repubblica, quando si è potuto, tuttora si può, essere famiglie mafiose per due e anche tre generazioni. In Calabria i mafiosi ereditano, non c’è l’analogo altrove. I Carabinieri tengono le statistiche, le illustrano anche, in alberi genealogici dettagliati e precisi. Che sembra garantismo, ma è uno strano, per così dire, modo di gestire la giustizia. Anche se la repressione sarebbe facile. Le donne ribelli di mafia, in questo il libro è chiaro, tutte giovani e giovanissime, ancora immuni al prudente “calcolo” della giustizia italiana, lo sanno: che vita è questa? 
Lirio Abbate,
Fimmini ribelli, la Repubblica-L’Espresso, pp. 207 € 9,90

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