I pazzi di Hölderlin eravamo noi
L’ipotesi di Agamben è che
Hölderlin barasse: “In generale molti elementi che nel comportamento di
Hölderlin vengono ascritti alla follia possono essere letti come il frutto di
una sottile, calcolata ironia”. Nei confronti della madre soprattutto. Ma poi,
pure, del resto del mondo, di chi aveva stroncato le sue traduzioni da Sofocle,
condannandole per la loro “iperletteralità”: gente non da poco, Voss, l’amatissimo
Schiller, Goethe, Schelling. E di chi le aveva capite ma si era lo stesso allontanato.
La chiave della “pazzia” Agamben trova in una lettera di Schelling a Hegel del
giugno 1803: “Dal momento che i suoi discorsi non lasciano pensare a una
pazzia, egli ha completamente assunto le maniere esteriori di coloro che si
trovano in quella condizione”. Recitava?
“Che si tratti di una consapevole
e quasi parodica presa di distanza dagli interlocutori è particolarmente
evidente nella corrispondenza con la madre, che aveva costantemente mostrato
un’assoluta incomprensione per le aspirazioni del figlio, che nei suoi
intendimenti avrebbe dovuto dedicarsi alla carriera di parroco”. È la madre che
vuole “l’infelice” - così lo chiama in ogni circostanza - pazzo, contro le resistenze
anche accanite degli amici, di alcuni di loro, specie Sinclair, che lo chiama
con sé a Homburg e lo fa nominare Bibliotecario di Corte – sarà l’appellativo a
cui Hölderlin terrà, fino alla fine. La madre insisterà, finché nel 1807 non
riesce a farlo ricoverare in clinica psichiatrica, da dove poi verrà alloggiato
in casa e a cura del falegname Zimmer, una bellissima dimora che ancora oggi si
visita con piacere, a Tubinga, una torre sul Neckar con vista sulla valle.
Sopravviverà di venti anni all’internamento del figlio ma non si recherà mai a
trovarlo, una distanza di trenta chilometri, meno – le spese sono coperte, tramite
la madre e poi la sorella del poeta, dal principato.
Le lettere alla madre Agamben
ripetutamente dice “capolavori d’ironia”. In questo caso il poeta si firma Hölderlin,
mentre solitamente si firma o si dice Scardanelli o altro nome di fantasia
(tutti italiani nel suono), e sempre scrive cerimonioso, allusivo. Hölderlin è
il “nome” da poeta, ma è il cognome, non in uso nemmeno in Germania nei
rapporti familiari. Zimmer testimonia nel 1821 che l’insofferenza dei familiari
è l’unica costante di umore del suo amato ospite: “Hölderlin non può sopportare
i suoi parenti, e quando vengono a visitarlo dopo tanti anni si infuria contro
di loro” – aggiungendo, per spiegarselo: “Ho sentito dire che suo fratello ha
sposato la donna d cui era innamorato”.
Le testimonianze sono discordi –
le testimonianze sono sempre discordi.
Quelle di Zimmer, il falegname colto e sensibile che lo tiene a pensione per 37
anni, sono di un inquilino normale, anche se ha “parossismi”, soprattutto i
primi tempi, e “inquietudini”. Suona il piano “di fantasia”, ma “se vuole suona
con le note”. Scherza. Quando sta male si riguarda. Sarà sempre autosufficiente.
E ama girovagare, anche per ore, senza perdersi. Per le strade di Tubinga e i
campi del Neckar. La diagnosi con cui i servizi del Württemberg lo tengono in
carico è benevola: “Carattere della malattia mentale: confuso. Osservazioni:
mansueto. Cause: amore infelice, esaurimento, studi”. Ma poi, certo, fa le
strane cose che identificano, identificavano allora, una persona come un pazzo,
non violento: si rivolge agli interlocutori con “Vostra Signoria, Vostra
Altezza”, si firma con nomi di fantasia (tutti italianizzanti), di nessuno dei
quali è stato trovato un possibile riferimento, ripete parole senza senso,
“Pallaksch”, “Wari wari”, “Conflex”. E ha – ha avuto i primi tempi - degli attacchi
d’ira repressa, in cui diventa “tutto rosso”.
L’inquietudine ha avuto origine
in una fortissimo esaurimento nervoso, a conclusione del viaggio di ritorno da
Bordeaux, dov’era precettore, derubato di tutto e in stracci, denutrito. Così
era apparso a fine giugno a Stoccarda, dopo un mese e oltre di peregrinazioni.
Il 22 era morta di scarlattina, già minata dalla tisi, il suo grande amore
Susette Gontard. Arrivato a casa, a Nürtigen, si scontra con la madre, che
aveva scoperto la relazione con Susette, attraverso le lettere. Seguiranno
cinque anni tribolati. Di cui varie spiegazioni sono state date, ma nessuna
sufficiente. Era crollato per il duro viaggio a piedi? Ma era anche andato a
piedi, fino a Bordeaux, tre mesi prima, d’inverno, precettore in casa del
console di Amburgo. Si è finto pazzo per evitare il processo cui fu sottoposto
il suo amico Sinclair, anche lui un credente rivoluzionario? Agamben non omette
questa ipotesi: c’è chi dice Hölderlin vittima di Parigi e dello spirito
rivoluzionario francese. Ma il processo è del 1805, non è convincente (è
intentato da uno speculatore), e si risolve presto in un nulla di fatto.
Hölderlin fu sfibrato dalle fatiche di traduzione di Sofocle, e avvilito dalle
critiche unanimi al lavoro svolto? È possibile. Era anche solo, senza più sostegni affettivi. E una tensione non esclude l’altra.
È però anche uno che vive per trentasette
anni autosufficiente. E scrive versi per i suoi visitatori in endecasillabi
misurati, in rima baciata o alternata, in componimenti pregni di senso anche
vertiginoso. In calligrafia, con compitazione e scrittura perfette. Scrive
anche sensato in altino, riflessioni filosofiche. Le lettere alla madre, si può
aggiungere, sono articolate, sintatticamente e logicamente. E molte sue
idiosincrasie non sono bizzarrie. Per esempio verso Goethe, negli anni della
follia di Hölderlin tronfio trombone - come Agamben maligno fa capire con
alcuni estratti del suo diario: assistere emozionato “al levé dell’imperatore” Napoleone, festeggiare le decorazioni che gli
giungono dagli imperatori, Napoleone, lo zar, intrattenersi a corte, a Weimar,
che bene o male è in guerra contro Napoleone, della “decadenza delle feste da
ballo”…
Tutto ciò che tocca Hölderlin è
emozionante. Ma non per questo si può
dire che non avesse problemi mentali. Non è il solo caso, il suo, di una condizione
mentale in qualche modo intaccata e di una capacità di poetare, anche
versificando, più o meno intatta.
Agamben non ci sta. Non si può
dire follia una vita normale per trentasette anni. La follia di Hölderlin anzi
considera “come la più alta manifestazione umana e, insieme, come una beffa
sublime”. Ci ha lavorato un anno, e un volume produce composito a sostegno
della sua conclusione, quasi un gesto di rabbia. Con un lungo saggio in forma
di prologo, la cronaca dettagliata degli anni 1806-1843, i trentasette anni
passati da Hölderlin in casa Zimmer, la metà dela sua vita, un epilogo che
spiega il sottotitolo, “Cronaca di una vita abitante”, una bibliografia, e
l’“Elenco dei libri di Hölderlin nella casa di Nürtigen”, che mostra una
biblioteca nutrita, quasi leopardiana (Hölderlin e Leopardi non sarebbe parallelo
bislacco, né da poco: per la biblioteca ma non solo, per gli amori infelici, la
solitudine, anche nel mezzo dei riconoscimenti, gli idilli, la concezione della natura,
della condizione umana, della finitezza degli infiniti), e filosofica, in
latino più che in tedesco.
L’epilogo, “Cronaca di una vita
abitante. 1896-1843”, lega le testimonianze. Nella “pazzia” di Hölderlin Agamben
identifica una forma dell’essere. “Vita abitante” è “una vita che vive secondo
abiti e abitudini”. Non del tutto cosciente o padrona dei suoi mezzi e dei suoi
modi, ma pienamente affettiva e sicuramente intellettiva. Attraverso un
tracciamento linguistico solido e significativo, dal sanscrito al latino e al
tedesco, abitare, abitante, abituale, abitudine conducono, spiega Agamben, a
una vita “speciale”: “Una affettibilità che resta tale anche quando riceve delle
affezioni, che non trasforma in percezioni coscienti, ma lascia trascorrere in
una superiore coerenza, senza imputarle a un soggetto identificabile”. Come
sarà di Robert Walser un secolo dopo – ma anche di molti altri, poeti e non.
La vita insomma di un uomo, un poeta,
vivo anche nella “follia”. Una tragedia, nel senso hegeliano, di conflitto
insanabile tra colpa e innocenza. Oppure senza colpa – Agamben: “L’abitazione
dell’uomo sulla terra non è una tragedia né una commedia, è un semplice,
quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale”,
comunque. La vita comune è comunque una “alla quale non è possibile imputare
azioni e discorsi”. Peggio: congedandosi ora da Hölderlin Agamben trova
sconsolato la sua follia “del tutto innocente rispetto a quella in cui
un’intera società è precipitata senza accorgersene”.
La vita insomma di un uomo, un poeta,
vivo anche nella “follia”. Una tragedia, nel senso hegeliano, di conflitto
insanabile tra colpa e innocenza. Oppure senza colpa – Agamben: “L’abitazione
dell’uomo sulla terra non è una tragedia né una commedia, è un semplice,
quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale”,
comunque. La vita comune è comunque una “alla quale non è possibile imputare
azioni e discorsi”. Peggio: congedandosi ora da Hölderlin Agamben trova
sconsolato la sua follia “del tutto innocente rispetto a quella in cui
un’intera società è precipitata senza accorgersene”.
È topico dei pazzi considerare
pazzi gli altri. Ma qui, ora, è diverso, intende Agamben. La società di cui
dice è una civiltà, la nostra, all’epoca dei social. Della superficialità al comando della comunicazione, della stupidità. Il detective accurato,
accorato, di Hölderlin si ritrova in fine anche lui in folle: “Posso forse per
ora soltanto «balbettare, balbettare”, come il poeta, senza pubblico, senza
interlocutori – “Non ci sono lettori. Ci
sono solo parole senza destinatario”.
Una non-biografia, dell’eroe tragico come colpevole innocente. O dell’eroe
stanco. Dopo essersi congedato dagli dei, ridicoli, senza malanimo e senza
rimpianti. Per adagiarsi nella “vita abituale”, e poetare nelle forme dell’idillio,
non più del tragico: “Le poesie della torre – questo estremo, impareggiabile, lascito
poetico dell’Occidente – sono tecnicamente degli idilli”.
Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin, Einaudi, pp.
241, ril. € 20
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