skip to main |
skip to sidebar
Letture - 452
letterautore
Balzac – Fu “mistico”
per due terzi della sua vita attiva – della mistica di Swedenborgh.
Cervantes – “Uccise la
cavalleria con una commedia scritta”, Balzac, I proscritti”.
Dante – Non piaceva a
Lamartine, di suo un po’ petrarchesco: “poeta barbaro”, “poema illeggibile”.
Nemmeno a Flaubert, che così ne scrisse a Louise Colet l’8-9 maggio 1852; “Ho
letto ultimamente tutto l’Inferno di
Dante (in francese). Ha delle grandi cadenze, ma quanto è lontano dai poeti
universali, che non hanno cantato, essi, il loro odio di paese, di casta o di
famiglia!... Quest’opera è stata fatta per un tempo e non per tutti i tempi; ne
porta il sigillo. Tanto peggio per noi che la capiamo meno, tanto peggio per
essa che non si fa comprendere!”.
Gide
invece si commuove sul Purgatorio,
nel “Diario”.
La
fortuna di Dante in Francia è stata alterna. Era di cultura francese, si
direbbe oggi, per la mediazione del suo maestro Brunetto Latini, e per le ascendenze
personali e del suo gruppo di amici poeti nella poesia cortese, di cui lo stil
novo è per molti aspetti una adattamento. Ma nel Trecento, a dispetto dell’aneddoto
tramandato da Boccaccio, di una sua lunga permanenza a Parigi durante l’esilio,
dopo Bologna, per addottorarsi in teologia (ripreso da Balzac nel racconto “I proscritti”,
dove fa di Dante l’interprete del misticismo … swedenborghiano), è stato
censito dagli studiosi un solo conoscitore di Dante, il cardinale Bertrand du
Pouget, Bertrando del Poggetto, l’ “angelo della pace” di papa Clemente XII,
che con una truppa di mercenari tra il 1320 e il 1327 sconfisse i principati
ghibellini ad Asti, Pavia, Piacenza e Parma, riprendendo per ultimo anche
Bologna. Ancora Chateaubriand, nel “Genio del cristianesimo, pone Tasso e
Milton sopra la “Commedia”. Dante irrompe in Francia con Delacroix, col dipinto
“La Barque de Caron” al Salon del 1822. Seguito da V. Hugo, in clima romantico
e delle “rovine”, e poi da Sainte-Beuve, analista della “Via nuova”. Delacroix se
ne dice affascinato in avvio del “Diario”: “Il Dante è veramente il primo dei
poeti. Si freme con lui, come davanti alla cosa. Superiore in questo a Michelangelo,
o piuttosto diverso; perché è sublime altrimenti, ma non per la verità”.
Balzac
ne farà un pilastro del “Livre mystique” del 1835, col racconto “I proscritti”
del 1830 (confluito nel “Livre Mystique” insieme col racconto coevo “Louis
Lambert” e col successivo “Seraphita”). Ne “I proscritti” Dante è a Parigi per
discutere di teologia con Sigieri di Brabante. È raffigurato da Balzac in dettaglio “come un
nibbio”, da “vecchio”. Con i tratti della maschera mortuaria di Ravenna, e con
quelli del “Trattatello” di Boccaccio - che non era stato ancora tradotto in francese
e Balzac non conosceva, ma ne sapeva abbastanza da un corso universitario di Villemain.
Il “Cours de littérature française”, che inaugurò gli studi di letteratura
comparata. E convivente con un bellissimo nobile ragazzo, “bianco e roseo”, di “candido
collo”, “vero e proprio collo di cigno”, “grazioso collo di donna”, e di “virginea
bianchezza della pelle”. Non c’è – ci sarà? – un Dante gay.
Gide – Lo studio dello
scrittore vuole molto italiano - così annota nel “Diario” agli inizi della carriera
di scrittore, 1894 - e comunque severo: “Niente opere d’arte, o pochissime, e
molto serie: (niente Botticelli), Masaccio, Michelangelo, la ‘Scuola di Atene’
di Raffaello; meglio ancora alcuni ritratti o alcune maschere: di Dante, di
Pascal, di Leopardi: la fotografia di Balzac, di…”.
Montaigne – “L’umanissimo
Montaigne, ondyant e divers
sul molle origliere del dubbio, incomparabile modello della nostra mediocre natura”,
è il ritratto del francesista Vittorio Lugli, in apertura a “Dante e Balzac”: “Montaigne
che onestamente confessa di non sentire gli eroi, i santi. Non li nega, li
lascia nella loro ara superiore…”,
Napoleone – Incantò la
migliore Europa, non solo Hegel. Il 1mo ottobre 1808 Goethe registra nel diario
l’invito ad assistere, insieme con altri dignitari, “al levé dell’imperatore Napoleone nel castello di Erfurt” – nel 1808,
vent’anni dopo la rivoluzione. Il giorno dopo Napoleone convoca di nuovo Goethe
a Erfurt e lo fa assistere al suo pranzo con Talleyrand e col sovrintendente
alla Finanze, Daru (il cugino e protettore di Stendhal). Due settimane Goethe dopo
registra commosso la concessione della Legion d’onore, la massima onorificenza
francese. – che “non smette mai di
indossare”, scriverà Wilhelm von Humboldt alla moglie (“ha preso l’abitudine di
chiamare chi gliene ha fatto dono il mio imperatore”).
Proust – Il suo “uranismo” lascia perplesso
Gide. Nel 1921, benché ormai confinato a letto, moltiplica i contatti con Gide,
in previsione dell’uscita di “Gomorra”. Mandando a prenderlo il suo chauffeur, “il marito di Céleste”,
annota Gide nel suo “Diario”, con formule cerimoniose che il brav’uomo doveva
imparare a memoria e ripassare nel tragitto, poiché le ripete tal quali, e dall’inizio,
se interrotto. Gide annota di avere dubitato che “non facesse un po’ di scena
con la malattia per proteggere il suo lavoro” – aggiungendo: “Il che mi sembrava
molto legittimo”. Ma presto si ricrede, trovandolo “molto sofferente”, poiché “deve
restare (immobile) per ore senza poter nemmeno muovere la testa”, e “coricato
tutto il giorno, per lunghi giorni di seguito” - morirà qualche mese dopo. Annota anche che “lungi dal
negare o dal celare il suo uranismo”, la forma passiva, femminile, dell’omosessualità
maschile, “la espone, e potrei quasi dire: se ne vanta”.
Su “Sodoma” Gide
si trova a disagio. Un mercoledì di maggio (1921) annota: “Non abbiamo parlato,
ancora questa sera, d’altro che di uranismo: dice di rimproverarsi questa «indecisione»
che l’ha fatto, per nutrire la parte eterosessuale del suo libro, trasporre «all’ombra
delle fanciulle in fiore» tutto ciò che i suoi ricordi omosessuali gli proponevano
di grazioso, di tenero e di fascino, sicché non gli resta più per Sodoma che del grottesco e del ripugnante.
Ma si mostra molto colpito quando gli dico che sembra aver voluto stigmatizzare
l’uranismo; protesta; e capisco infine che ciò che noi troviamo ignobile,
oggetto di riso o di disgusto, non gli sembra, a lui, così ripugnante.
“Quando gli
chiedo se non ci presenterà mai questo Eros sotto specie giovani e belle, mi
risponde che, anzitutto, ciò che l’attira non è quasi mai la bellezza e che
ritiene che essa non ha che poco a vedere col desiderio – e che, per quanto
riguarda la giovinezza, era ciò che poteva con più facilità trasporre (ciò che
si prestava meglio a una trasposizione)”.
A fine anno, il 2 dicembre, Gide ritorna su
Proust, “Sodoma”, che taccia di opportunismo: “Ho letto le ultime pagine di
Proust (numero di dicembre della NRF) con, anzitutto, un soprassalto d’indignazione.
Conoscendo quello che pensa, quello che è, mi è difficile vederci altro che una
finta, che un desiderio di proteggersi, che un camuffamento, il più abile,
perché non può tornare a vantaggio di nessuno di denunciarlo. Di più: questa
offesa alla verità rischia di piacere a tutti: agli eterosessuali di cui
giustifica i pregiudizi e lusinga le ripugnanze; agli altri, che profitteranno
dell’alibi e della loro scarsa somiglianza con quelli che ritrae. In breve, nella
vigliaccheria generale, non conosco nessuno scritto che, più che il Sodoma di Proust, sia capace di
affossare l’opinione nell’errore”.
Nel primo di
questi incontri del 1921, il 14 maggio, Gide ha portato a Proust una copia di “Corydon”,
la prima o seconda edizione riservata,
in poche copie, per gli amici – la pubblicazione avverrà nel 1924, dopo “Sodoma”.
Una difesa dell’omosessualità, in forma di dialogo, prendendo spunto da un
processo nel 1910 in cui un uomo viene processato per omicidio e condannato, in
tutti i gradi di giudizio, esclusivamente perché omosessuale.
Venezia – Vittima di Thomas Mann “La morte a
Venezia”, che l’ha condannata a “essere” malinconica e lugubre? Marco Cicala lo
sostiene sul “Venerdì di Repubblica”: “lo straordinario racconto lungo – o romanzo
breve” di Thomas Mann - ha “arrecato enorme nocumento all’immagine della città,
rafforzando un cliché fatto di suggestioni estenuate e agonizzanti. Tutto un
catalogo di emozioni lugubri che saltando tra calli, ponti, campi, rive e
vaporetti, moltissimi di noi non hanno mai provato in vita loro”. È vero, anche la
Venezia di Proust e quella di Sartre, che ne voleva fare un lungo racconto,
sono malinconiche e un po’ jettatorie. Il carnevale stesso è, al cinema,
specie se di opere shakespeariane e mozartiane, un sorta di danza macabra. Ma è anche vero, per esperienza, che da novembre a marzo , tramontato il sole,
è una città di ombre, vuota, gelida.
letterautore@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento