lunedì 29 marzo 2021

Letture - 453

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Dante
– È riferimento naturale in Balzac - ne avesse o non conoscenza diretta, della “Commedia” e delle altre opere. Nella stessa nomenclatura della sua opera, sulla quale tanto lavorò: alla Fine fu “Commedia umana”, dopo un “La diabolica comedia”. Nel racconto “I proscritti” mette in scena, compagno di esilio con Dante a Parigi, di fronte a Notre Dame, il giovane Godefroid, in memoria di Godefroy Cavaignac, suo compagno di scuola al liceo-internato Lefèvre nell’anno scolastico 1813-1814. E a Godefroy fa raccontare da Dante un “episodio non scritto” della “Divina Commedia”, in cui un Honorino, all’“Inferno” tra i suicidi, gli racconta la sua storia d’amore infelice con una Teresa Donati.
Anche la “Honorine” del romanzo omonimo - la sola, insieme col falso Honorino di Dante, a portare il nome di Balzac fra i suoi 2.209 personaggi - si difende nei suoi tormenti d’amore con “i cerchi” di Dante: “A nessun uomo, foss’anche sant’Agostino, che per me è i più tenero dei padri della Chiesa, è dato entrare negli scrupoli della mia coscienza, che per sono i cerchi invalicabili dell’inferno di Dante”.  
 
Anche Dante “mussulmano” era in buona misura anticipato da Balzac. In un abbozzo del 1834, di un’opera pensata per la collezione di “Studi filosofici”, “La Vie e les Aventures d’une Idée”: “In Europa, le idee strillano, ridono, folleggiano, come tutto ciò che è terrestre; ma, in Oriente, sono voluttuose, celesti, elevate, simboliche. Solo Dante ha saldato queste due nature di idee. Il suo poema è un ponte ardito gettato tra l’Asia e l’Europa”. Una sorta di “presagio”, nota Vittorio Lugli nel 1951 in “Dante e Balzac”, 28, “tutto istintivo, della teoria di Miguel Asìn Palacios circa l’influenza mussulmana sulla Divina Commedia” – la notazione è riferita da Lugli a F. Baldensperger, “Orientations étrangèrese chez H.de B”, 1927.
 
La fortuna di Dante fuori d’Italia è immediata in Inghilterra: già nel Trecento Chaucer, “il padre della poesia inglese”, assicura Boitani (“Dante in Inghilterra”, riconosce a Dante “precisione assoluta e onnipotenza di parola”. Ma tarda in Francia e in Germania, a partire da fine Settecento - negli Stati Uniti dal primo Ottocento. In Spagna già da Quattrocento, ma limitata, in particolare opera del poeta genovese-sivigliano Francisco Imperial.
Ma l’editio princeps del “Fiore” è francese, di Ferdinand Castets, 1881. La prima edizione critica della “Commedia” è stata di Karl “Carlo” Witte, 1862.
 
Si scrivono molte “vite” di Dante, da ultimo di Santagata, Barbero, Cazzullo, Inglese, Pasquini, Dal Bello, Pisano, di uno cioè di cui non si sa nulla di coevo, carte, atti, registri, corrispondenze. Di uno, certo, molto proiettato sul “pubblco” – politica, arte, filosofia, teologia, storia, polemica contemporanea – e che scrisse molto, anzi moltissimo, ma di cui non si possiede nulla, nemmeno il più piccolo o casuale pizzino,  autografo.
 
La Germania, dove è arrivato a fine Settecento (è ignoto a Goethe per esempio, pure tanto italianizzante), è probabilmente il posto dove è più letto. L’ultimo repertorio della fortuna di Dante in Germania, compilato da Thomas Klinkert cinque anni fa, “Dante Deutsch”, ha contato almeno “centosettanta traduzioni”, parziali o complete, della “Commedia” in due secoli – “una settantina di traduzioni complete e un centinaio di traduzioni parziali”.
La scoperta si deve allo svizzero Johann Jakob Bodmer, 1763, seguito poi dai filosofi e poeti romantici, gli Schlegel, Schelling, Hegel. È tedesca, del filosofo e filologo Karl “Carlo” Witte, la prima edizione critica della “Commedia”, basata su quattro manoscritti differenti, 1862 – seguita tre anni dopo da una traduzione “epocale” del poema, dice Klinkert, e dalla creazione di una Deutsche Dante-Gesellschaft. Altra “traduzione epocale” nel repertorio di Klinkert è targata “Philalethes”, pseudonimo del re Giovanni di Sassonia, pubblicata tra il 1839 e il 1845. Nel Novecento Klinkert registra un interesse perdurante: “La Commedia è stata tradotta da alcuni dei più rinomati filologi: Karl Vossler (1942), Hermann Gmelin /1949\54), Walther von Awrtburg con sua moglie Ida (1963)”. Più quelle dei poeti Stefan George (1912) e Rudolf Borchardt (1923-30).
Klinkert trascura Emil Ruth, l’italianista “fiorentinizzato” di metà Ottocento che Dante voleva tedesco. Tedesco di origine: solo un tedesco poteva “ringiovanire” la poesia - a metà Ottocento si poteva dire, era l’epoca dei “primati” nazionali.
 
È teatrale: quasi due terzi dei versi della “Commedia” sono costituiti da dialoghi. 
 
Dialetto
– Persiste già nel mentre che veniva cancellato, da Dante, specie nella “Commedia”. Paola Manni, “L’invenzione della lingua”, registra, per dire “ora”, il lucchese “issa” e il lombardo “istra”; il bolognese “sipa” per “sia; e il sardo “donno” per Michele Zanche di Logodoro, e per Ugolino della Gherardesca, che è pisano ma aveva domini nel “giudicato” di Cagliari.
 
Foja
– In disuso, dopo essere stata per qualche secolo al centro di molti versi e anche di poemi, sta per la passione sessuale indomabile odierna, specie omosessuale, come certificato da Gide nel “Journal”, Genet, in “Nostra signora dei fiori”, da Pasolini in “Petrolio”, da Busi, “Sodomie in corpo 11”, e da Tony Duvert e Edmund White. Ma non più, non solitamente, non in Gide né in Pasolini, e nemmeno in Genet, con eccitazione: una foja spenta.
 
Marinetti
– Ricco, grasso e chiacchierone, così lo registra Gide nel “Diario” un martedì di maggio 1905: “Alle 2, visita di un Marinetti, direttore di una rivista di paccottiglia artistica che s’intitola Poesia. È uno sciocco, molto ricco e molto grasso, che non ha mai saputo stare in silenzio”.
Cinque anni dopo, in uno dei “foglietti” non datati del “Diario”, Gide è sempre cattivo, ma Marinetti è già personaggio: “Marinetti gode di un’assenza di talento che gli consente tutte le audacie”. E “fa, alla maniera di Scapino, da solo tutto il fracasso di un tumulto”. È “l’uomo più simpatico del mondo se si eccettua D’Annunzio; vivace alla maniera italiana, che prende spesso la verbosità per eloquenza, l’agitazione per il movimento, la febbrilità per il trasporto divino”. Nella vista precedente, ricorda Gide tuttavia, “dispiego complimenti così incredibili che mi obbligarono a partire subito per la campagna; se l’avessi rivisto, sarei stato preso al laccio: gli avrei trovato del genio”.   
 
Perugia
– Gide vi s’identifica – in un’annotazione del “Diario” datata “febbraio” (1896?): “E la mia sola presenza, ovunque, stabiliva tra tutto ciò che vedevo, ascoltavo e sentivo, una palpitante armonia nella quale finiva la mia resistenza. Io ci vivevo…”
 
Poesia francese
– “Come spiega, signor Gide, che non ci sia una poesia francese?” Gide, invitato a Cambridge, se lo sentì chiedere – racconta nella prefazione alla sua “Anthologie de la poésie française”, che inaugurò la Plèiade nel 1949 – dal poeta Alfred Edward Housman. Gide ne fu naturalmente stupito, ma poi se ne fece una ragione: il francese è nelle lettere per la prosa, non ha avuto il Grande Poeta nazionale, epico, tragico, e nemmeno una poesia consistente, da quella cortese potendo senza perdite saltare al secondo Ottocento, a Baudelaire e successivi.
 
Scrivere – Il “segreto della scrittura è la immensa varietà dei dettagli”: Balzac arriva a questa conclusione analizzando il successo perdurante di Walter Scott  – nella recensione di “Redgauntlet”, “Feuilleton littéraire”, 1 luglio 1824.

letterautore@antiit.eu

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