“Lu Dante” siamo noi
“Parliamo la lingua di Dante. È un fatto”,
statuisce Tullio De Mauro presentando il Grande Dizionario Italiano dell’Uso.
Del “vocabolario fondamentale”, aggiunge Manni, “le circa duemila parole a più
alta frequenza”, quelle “che esprimono le nozioni indispensabili”, di uso
comune, “quasi milleottocento (il 90 per cento) si trovano nel poema dantesco”.
Un volume agile ma pieno di cose.
“Perché Dante è il padre dell’italiano” è
il sottotitolo. Non si saprebbe dire meglio del direttore degli Uffizi, Eike
Schmidt, l’altro ieri, in risposta a una stroncatura del giornalista tedesco
Arno Widmann: “Widmann sostiene che l’importanza di Dante sulla lingua italiana
non sia stata così grande, perché i bambini a scuola avrebbero difficoltà a comprendere
i suoi testi. Ma non è affatto così. A parte qualche parola e qualche concetto
teologico, la lingua di Dante è perfettamente intelligibile ancora oggi,
diversamente da quanto accaduto con l’inglese o il tedesco del Trecento, che
sono praticamente incomprensibili per gli inglesi e tedeschi odierni”.
Con Dante, col poema, il fiorentino è
diventato la lingua italiana. Con alcuni neologismi di suo conio, rimasti
inalterati: inurbarsi, fertile, mesto, molesto, quisquilia, denso, bolgia,
scialbo, stare fresco, aguzzare la vista, pagare il fio, provando e riprovando.
Altri neologismi invece sono caduti (ma “intuarsi”, entrare in te, oggi è
recuperato nel quadro dell’empatia….). Con gallicismi in abbondanza, e
latinismi. Una formidabile fabbrica linguistica.
Oppure si può dire con Philippe Daverio,
“provocatore” che Manni evoca in avvio, che “l’italiano è diventato lingua con
il conio del fiorino”. Il conio del fiorino d’oro, 1252, che sarebbe diventata
la moneta corrente in Europa, precedette di soli tredici anni la nascita di
Dante nel 1265. Fu così che, sempre col Daverio di Manni, “il fiorentino
conquistò l’Europa in quanto garanzia bancaria ben prima che conquistasse
l’Europa attraverso le sue eccellenze letterarie trecentesche”. Firenze, la
città più alfabetizzata, con scuole di abaco promosse dai ceti mercantili,
diventa la più ricca, e la più influente, espansiva.
Dante però - la sua lingua, gli stilemi,
l’animus - influì non poco in questa
conquista, in Italia. Manni censisce “oltre ottocento manoscritti fra quelli
trecenteschi e quelli quattrocenteschi” del poema – “nessuno, prima dell’epoca
della stampa, ha avuto una fortuna simile”. Il più antico è certificato del
1336, copiato a Genova. E subito popolare: “Già nel 1317”, Dante ancora vivente
dunque, “alcune terzine dell’ Inferno vengono
ricopiate dai notai bolognesi”. La “Commedia” viene riferita come “lu Dante” in
Sicilia nel 1367, come “el Dante” a Firenze nel 1373 in una petizione popolare.
Lo stesso Dante, inoltre, col “De vulgari
eloquentia”, “apre la strada alla moderna dialettologia”. E apre la sempiterna “questione
della lingua” che caratterizzerà l’Italia. Il suo trattato è anche il primo ceppo
della storiografia letteraria. Di più, viene da aggiungere: nella “Commedia” Dante
ha un uso contemporaneo, odierno, di termini identificativi dialettali, interpolati
qua e là. È padrone della linguia come fosse già di lungo corso, e dell’Italia,
dei dialetti.
Manni è storica della lingua (“La lingua
di Dante, Petrarca e Boccaccio”), del fiorentino in specie, del Tre-Quattrocento.
Paola Manni, L’invenzione della lingua, la Repubblica, pp. 143 € 9,90
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