Medea in America – nera, schiava
“A differenza di un orso o di un
serpente, una volta morto un negro non lo si poteva scuoiare per ricavarne
qualcosa e il suo corpo non valeva neppure un soldo bucato”. Era la sola ragione
per tenerli vivi: i cacciatori di schiavi fuggiaschi rifuggivano dall’accopparli,
che sarebbe stato al loro modo di vedere più semplice. Raccontata, rappresentata,
per briciole ma in evidenza raccapricciante, la vita degli schiavi, anche dopo
liberati, in America, non molti anni fa – e, in un breve pienissimo inciso a p.158,
anche quella dei Cherokee, degli indiani d’America: una storia di sterminio che
si trascura ma che è ben parte degli Stati Uniti. Per sapere cosa succede,
anche per apprezzare che una democrazia sia uscita da tanto obbrobrio – nessun risentimento
nella narratrice, giusto le stranezze dei bianchi, dei razzisti e degli
antirazzisti..
Sethe, la schiava fuggitiva, vive
a 37 anni libera in Ohio con una figlia di 18, Denver – cui ha dato il nome della
ragazza bianca, Amy Denver, a suo modo anch’essa fuggitiva, che l’ha aiutata a
partorirla. “Beloved”, amatissima, è la
figlia di due anni che la schiava Margaret Garner, “Sethe”, in fuga, ripresa,
ha scannato col coltello perché non ritornasse schiava. Ma presto Beloved ritorna.
A ridosso dell’apparizione di vecchi compagni di schiavitù, memori della
bellezza della madre, a suo tempo attrazione della Sweet Home, la casa dei vecchi
padroni Garner. Beloved riappare, compagna dapprima di giochi della sorellina
minore Denver, poi interlocutrice insistente, assorbente, della madre, il cui
rimosso riaffiora, tentazione e terrore di Paul D, il vecchio compagno di schiavitù
che ha eletto domicilio in casa Sethe. Così chiamata, era senza nome, al
seppellimento: allo scalpellino che gliene chiede il nome, offrendosi di inciderlo
sulla pietra in cambio di una sveltina, lì sull’erba, in presenza di un suo
proprio figliuolo, Sethe risponde “amatissima”. Ritorna, perché “chi muore di
morte violenta non rimane sottoterra, come il Cristo”.
Un lento, lungo, flahsback.
Attorno all’infanticidio un’epoca prende corpo, buia, fredda, insanguinata a
freddo. “Era il milleottocentosettantaquattro e i bianchi erano ancora
scatenati. Città intiere ripulite dalla presenza dei neri. Ottantasette
linciaggi in un anno, solo nel Kentucky, quattro scuole di colore distrutte dal
fuoco, adulti frustati come fossero bambini, bambini frustati come fossero
adulti, donne nere violentate dalle ciurme, furti di proprietà, colli spezzati”.
Una storia di violenza ordinaria, che si rimuove ma non remota, e non finita. Era
nel Kentucky Sweet Home, la proprietà gestita da un coppia di bianchi che riconoscevano
i negri, passata poi, alla morte di lui, al fratello maestro: non cattivo, ma
come tutti i bianchi, che i neri tiene per inumani: non li capisce, parlano,
vivono senza senso. Un racconto da antropologa meticolosa, sulla vita-non-vita
degli schiavi, non per paradigmi ma da indagine sul campo, di cose viste. come se fosse possibile vivere una storia passata.
La storia anche di una solitudine
altezzosa ma continuamente incattivita. Dai bianchi “senza pelle”, come appaiono
agli occhi degli schiavi, senza colore, trasparenti. Larve di cui è inutile
chiedersi la logica o approfondire il linguaggio. E dalla propria gente che si
pretende sodale, e canta e prega, ma non si stanca di giudicare, e rinnovane la
pena, il dolore, l’isolamento stesso nel mentre che si approfitta della
generosità della vittima. Un racconto del bene nel male, nella morte procurata
alla propria figlia, che è insieme di una contro tutti. Sethe, la madre dell’Amatissima,
è Medea, una donna appassionata ma senza personalità, non giuridica, senza
diritti. Una Medea in nero alla seconda potenza, doppiamente annientata, come
donna e anche come schiava. Una “tragedia greca”, un teatro di passioni e
riflessioni, più che di “qui” e “ora” – molto argomentare della narrazione si
potrebbe si potrebbe dire euripideo.
Un romanzo molto costruito. Di
testa. Si direbbe di stomaco, per i materiali in cui si articola, che inondano le pagine, con insistenza anche
ripetitiva, ma sono deiezioni, rifiuti. La tessitura, che si vuole complessa,
su più piani, personali, morali, affettivi, storici, è molto costruita. Dall’ordito
purtroppo in vista, e camaleontico. Morrison è l’autrice e il professore – il critico,
l’anatomopatologo il dissezionatore. Di eventi e modi di essere ma anche di simbologie
complesse, così come il linguaggio, che li trascendono. E occupano, invadono,
ingombrano la lettura – così come quando si legge Euripide e non lo si ascolta,
lo si guarda.
Morrison è stata una redattrice
editoriale di qualità, per scrittori di ricerca, attività che rivendica nella
nota introduttiva, ora da professore di scrittura creativa nelle maggiori
università, e si sente.
Il virtuosismo si sente e pesa. Il
racconto frammentario e ripetitivo, estenuato, lento. A ondate piane, che si
ripetono mutevoli e uguali. Insistito, abnorme come la realtà da esorcizzare. Nella
forma di un lungo, lento, esorcismo. Dell’infanticidio. Il delitto si
esorcizzia con la ripetizione, sfaccettata, di plurimi punti di vista, ma
statica, ripetitiva. Un capitoletto è anche in prosa ritmata, in versi.
Una storia di donne. Donne di latte,
di carne, di fatica quotidiana, e canti, divinazioni, divinità. Fustate,
marchiata a fuoco, mandate alla monta, del padrone, del figlio del padrone, di
un altro schiavo, e munte, del latte, proprio come le bestie. Della schiavitù
quale era di fatto, una storia sordida di mercati di esseri umani, alla fiera.
Spesso magnificata, anche in questa epoca di cancel culture, qui vissuta, senza rivalsa ma nella cruda polemica
dei fatti, di violenza impensabile, quotidiana, minuta, percosse, mutilazioni, assassinii,
con lo stivale, col bastone, col forcone, con la forca, e la fame, di esseri
considerati alla stregua di oggetti, senza stato anagrafico e senza nome –
sopravvivere era un lusso, un caso, anche nella logica del mercato, dello schiavo
merce da vendere. Addetti alla procreazione, nelle pause notturne delle corvées quotidiane, imposta: ai maschi
come stalloni, alle femmine come fattrici. Per produrre nuovi schiavi, sul
mercato già ai sette-otto anni. Terrorizzante
nell’apparente anonimità, normalità. Senza polemica, i padroni si commentano da
soli. Anche i buoni, la padrona bianca e la serva nera in simbiosi, come nel
film, entrambe cuoche, sarte, madri, faticatrici. E i bianchi che “odiavano la
schiavitù più di quanto odiassero gli schiavi”, ciò che ha reso – rende? –
sterile la solidarietà.
Un’opera narrativa a seguire di
un grande lavoro di ricostruzione storica della tratta e della schiavitù che
Tomi Morrison aveva condotta qualche anno prima, “The Black Book”, il libro
nero dei neri. “Sessanta milioni\ o più”, l’anonimo risguardo, è il numero degli
schiavi morti nelle razzie o nel viaggio attraverso l’Atlantico - se ne
cacolano quattro, secondo W.E.DuBois, per ogni sopravvissuto, i sopravvissuti alle
razzie in Africa e non finiti ai pesci nell’Atlantico. Una ecatombe ricorrente,
a ogni grande ondata migratoria, ancorché libera?
Con una postfazione di Franca
Cavaglioli, storica curatrice di Italia di Toni Morrison, Nobel 1993. Sportelli
fa l’anamnesi del romanzo, circostanziata, puntuta, in fine. Sui bianchi, gli
“uomini senza pelle”, diafani, spettrali, che “per riempire di sé il mondo”,
conclude lo studioso, “diventano essi stessi un vuoto”. Sulle simbologie di cui
la narrazione s’intesse.
Toni Morrison, Amatissima, Frassinelli, pp. 410 €
10,90
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