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Anima
– Quella dell’universo è come un grande albero, in
Plotino, “Enneadi”, IV, 3,4: “L’anima dell’universo assomiglia all’anima di un
grande albero che, senza fatica e senza rumore, governa la pianta”.
Auschwitz – Il silenzio di
Dio Camus l’aveva sentito nel 1944, nel “Malinteso”. Si vede ch’era nell’aria,
non si può darne colpa ai tedeschi.
Filosofia – Non è sinonimo
di saggezza. Rousseau condannava anche i libri, da scrittore di libri, in grande
formato. Locke condanna la poesia e la musica. Platone la scrittura, lui che
scrisse più di chiunque altro – prima di Heidegger.
La vuole incerta, madre e figlia d’incertezza, il filosofo Plotino:
“Soltanto quaggiù ha luogo la riflessione, quando cioè l’anima cade nella perplessità
ed è piena di ansie o in stato di maggior debolezza”.
O anche: “La saggezza è propria di chi desiste dal riflettere”.
“Non c’è niente di così assurdo che non
sia stato detto da qualche filosofo”, è pensiero di Cicerone, che molto soffrì
di non esserne uno. Ma limitando il campo dell’assurdo – oltre che della filosofia.
“La filosofia nasce nel momento in cui alcuni uomini si rendono conto di non potersi più sentire parte di un popolo”, è un passaggio breve, ordinario, dell’anamnesi che Agamben fa de “La follia di Hölderlin”: “La filosofia è innanzi tutto questo esilio di un uomo fra gli uomini, questo essere straniero nella città in cui il filosofo si trova a vivere e nella quale, tuttavia, continua a dimorare, ostinatamente apostrofando un popolo assente”.
Il filosofo come profeta, nella tebaide? Non propriamente. Agamben fa l’esempio di Socrate: “La figura di Socrate porta all’espressione questo paradosso della condizione filosofica; egli è diventato così estraneo al suo popolo, che questo lo condanna a morte; ma, accettando la condanna, egli aderisce ancora al suo popolo”.
E dopo Socrate? E prima?
La stessa condizione del suo filosofo Agamben vuole del poeta: “Un popolo come quello a cui i poeti credevano di potersi rivolgere non esiste o è diventato qualcosa di estraneo o di ostile”. Un caso? Nel caso di Hölderlin Agamben rileva sintonie avvertite, e durevoli, di persone del popolo, il falegname Ernst Zimmer che lo accudiva, gli studenti a pensione da Zimmer, gli studenti di Tubinga.
Fine – È sempre un principio,
di qualcos’altro? La morte come seme. Delle metempsicosi. Della chimica – nulla si crea nulla si distrugge,
tutto si trasforma.
Adorno, “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, è
anticipato da Hölderlin, in forma di domanda, ma un secolo e mezzo prima: “Che ce ne facciamo dei poeti (wozu
Dichter) nel tempo del bisogno?”. È verso di Hölderlin nell’elegia “Pane e
vino”. Che Heidegger legge come poesie della fine della poesia, dopo la fine di
Dio. Di un poeta che continuò a poetare anche nella follia, lunga più della sua
vita attiva.
Gratitudine – Il
sentimento meno indagato, ma non così scontato come appare. Hoelderlin la dice una virtù. Ma è sempre come voleva Tacito: “I benefici ci sono graditi finché crediamo di poterli
contraccambiare, ma se superano questa capacità, la riconoscenza si tramuta in
odio” – “Annali”, IV, 18
Molteplicità – È tensione, vocazione, più forte della personalità? È il mito di
Prometeo, moltiplicarsi. Il romanziere Roman Gary, che l’ha praticata (ma molti
altri casi si registrano in letteratura,
precipuo quello di Pessoa, che si era costruite almeno quattro personalità
distinte, o di Platone in veste di Socrate) la dice “La più antica
tentazione proteica dell’uomo, quella della molteplicità”. Nel mentre che montava
l’impostura del suo alter ego “Émile
Ajar” e ne farà anche il protagonista del capolavoro di “Ajar”, “La vita
davanti a sé”. Dove inventa-racconta-romanza una sorta di doppio, Momo, che figura
giovane arabo privato dei genitori all’età di quattordici anni, è costretto a
inventarsi un’altra vita.
Natura
- “Tutto questo mondo visibile non è che un
impercettibile segmento dell’ampio cerchio della natura…Nessuna idea le si avvicina.
Abbiamo voglia di gonfiare le nostre immaginazioni al di là degli spazi
immaginabili; non riusciamo che a generare atomi, in paragone alla realtà delle
cose”. Il mondo “è una sfera il cui centro è dappertutto, la circonferenza in
nessun luogo”. La nostra ragione è poca: “Se la nostra vista si ferma lì,
l’immaginazione deve procedere oltre; e
si stancherà prima lei d’immaginare che la vita di darle esca”. È parte del pensiero
di Pascal n. 72, “Sproporzione dell’uomo”. L’uomo è incapace di verità, ma lo
sa; è il piccolo-grande uomo di Pascal. Nell’infinitamente grande come
nell’infinitamente piccolo.
Storia - “L’io non
soggiorna più nella storia, è la storia, oggi, a soggiornare nell’io”, riflette
Ingeborg Bachmann, poetessa, narratrice. Nel suo senso è vero, dell’io che
scrive il romanzo del secondo Novecento.
Uomo
della Provvidenza – Prima che fascista, è romantico: il mito dell’io,
dell’individuo. Edgar Wallace, il giallista, al debutto nel 1906, con “I
quattro giusti”, venendo da una stagione di anarchia, così spiega il terrorismo
politico – i “giusti” fanno giustizia dell’ingiustizia: “È una concezione
romantica, e dal punto di vista dei Quattro assolutamente logica. Pensate
all’enorme potere di cui, nel bene e nel male, è spesso investito un solo uomo:
un capitalista che controlla il mercato mondiale, uno speculatore che accaparra
cotone o grano mentre la gente muore di fame e i mulini restano inoperosi,
despoti e tiranni che tengono fra l’indice e il pollice il destino delle
nazioni”.
Un solo uomo s’investe allora del potere di
uccidere, sterminare, “uomini che si arrogano il diritto divino del supremo
giudizio”: “Vaghe, evanescenti figure che si avvicendano sulla scena del mondo
a condannare e a giustiziare”. Non per interesse: “Con quel tanto di misticismo
che sempre accompagna i nostri sentimenti, noi diciamo che sarà Dio a giudicarli”.
zeulig@antiit.eu
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