A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (454)
Giuseppe Leuzzi
Paola Manni,
“L’invenzione della lingua. Perché Dante è il padre dell’italiano”, trova nel
fiorentino
di Dante
“elementi esterni, di provenienza extrafiorentina. Dei poeti pisani
“appartenenti alla scuola dei
siculotoscani”. O, di più, di “meridionalismi spiccati, retaggio della scuola
poetica siciliana”. Li trova “ai livelli
più profondi e strutturati, ai livelli della fonologia e della morfologia”. Più
diffusi nelle poesie
giovanili, ma presenti ancora nella “Commedia” – “come la forma aggio per ho e i
condizionali
uscenti in –ia, del tipo vria, poria, saria, in luogo dei normali
avrei, potrei, sarei”.
L’Italia era meno
divisa nel Trecento, quando non esisteva.
Dice
bene Carlo M. Cipolla, aprendo la sua “Storia facile dell’economia italiana dal
Medioevo a oggi”: “Un popolo che non conosce la sua storia è un popolo che non
conosce se stesso e che avrà difficoltà a risolvere i problemi che deve
affrontare”. È la situazione del Sud, da un alcuni secoli ormai.
Seguita
Cipolla – il libro a lui intestato è di trent’anni fa, ma cosa cambia?: “Il
contrasto economico che oppone il Nord al Sud, e che rappresenta, a mio avviso,
il più grave problema dell’Italia odierna e condizionerà il nostro futuro ancora
per decenni a venire”.
Dice
bene, che “oppone”, niente allisciamenti. E che non si risolve. Perché il Sud
non c’è, si è squagliato. Questo lo storico dell’economia non lo dice, ma lo ha
già detto, a proposito dei popoli che non hanno storia.
Sudismi\sadismi
Alla
rubrica delle lettere del giornale “la Repubblica” due donne scrivono da Milano
per lamentare il disservizio sui vaccini.
“Sapessi com’è strano andarsi a vaccinare
a… Milano”, scrive una: “Mi hanno convocata, dopo 40 giorni, in un altro
comune, a venti fermate di tram e un chilometro e mezzo a piedi”. E un’altra:
“Mia madre, disabile, residente in zona Stazione centrale, è stata convocata a
Pieve Emanuele, ridente borgo a Sud di Milano, quasi fuori provincia”.
Risponde
per il quotidiano Francesco Merlo, di Catania: “Care e «rimescolate» signore
milanesi, mi torna in mente un episodio che non è paragonabile perché riguarda
i morti. Un giorno i dipendenti del cimitero di Catania rimescolarono i nomi
gettando nel panico anche san Pietro che, smistando le anime sbagliate, si
ritrovò in paradiso la malavita organizzata sotto forma di malavita eterna”.
Catania
non è Milano. L’episodio non è paragonabile. Ma non c’è Milano, c’è solo la
malavita, catanese, anche nel Covid a Milano.
La mafia in rete
C’è
più mafia del mondo digitale? Si è aggrediti nel privato, in ogni sfera, dalla
semplice curiosità alle passioni e alla sofferenza, con ogni sorta di inganno e
violenza. Da anonimi iperprotetti. Che sanno tutto di voi, penetrando le vostre
identità più riposte, nomi utente, password. E hanno il solo scopo di
derubarvi, di deprivarvi del vostro – che è lo scopo primario della mafia, appropriarsi
dell’altrui. Si dice: ma non sparano. Come no, minacciano, infettano, indeboliscono,
traumatizzano. E derubano. Nell’impunità. Mafie di ogni razza, russi e greci, peruviani e
nigeriani.
Si
spia anche professionalmente (la polizie, i giudici) in rete, attraverso i
trojan, che registrano i contati più personali. Orientabili peraltro, come
dimostra il trojan con cui i Carabinieri hanno spiato alcuni giudici che si
spartivano le carriere, ma hanno interrotto il contatto quando tra quei giudici
figurava qualcuno che i Carabinieri dovevano
proteggere.
I
nomi sono conseguenti alle cose, e il digitale non sembra mafia, la
compitazione è diversa, ma la sostanza è conseguenza della giustizia.
Da
un ordine del giorno innocuo presentato alla Camera da un deputato, l’onorevole
Enrico Costa, si rileva un mondo da un semplice tabulato telefonico – quello
che i nostri pigri sceneggiaori tv usano per risolvere i loro gialli: “Questo
strumento svela la posizione nello spazio e nel tempo di una persona e la sua
cerchia di relazioni sociali. Rivela con chi parla, a che ora parla, quanto tempo parla, dove si trova quando parla, con quale frequenza lo fa, chi chiama
dopo aver sentito una persona”. Il tabulato si può chiedere e divulgare senza commettere
un reato. Lo può chiedere e divulgare un giudice, è vero.
Storia facile del ritardo del Sud
La
“Storia facile” di Cipolla lo è specialmente, in poche righe ma precisa, della
questione meridionale. Questa la storia in sintesi:
Nord
e Sud nascono nel Basso Medioevo. Con i Normanni, cioè col baronato, e con i
loro successori, Svevi e Angioini. “Ai nastri di partenza dello sviluppo
medievale” il Sud era meglio piazzato: “Rimasta fuori dall’impero carolingio”,
divisa fra “zone di dominio musulmano (come la Sicilia), principati longobardi
e ducati” bizantini, “l’Italia meridionale aveva mantenuto una produzione di
materie prime essenziali al consumo delle genti mediterranee (grano e fibre
tessili, come la seta, il cotone, la lana), e un artigianato di media qualità
destinato anch’esso al mercato internazionale. I mercanti delle coste campane e
pugliesi” commerciavano col Nord Africa e il Mediterraneo orientale, “e si era
conservata una circolazione monetaria aurea, grazie alla disponibilità di oro che affluiva
in pagamento delle esportazioni”. Questo sarà ancora per tutto il Duecento un
forte asset.
“Installato
al centro del Mediterraneo, ancora strettamente legato al più avanzato mondo
islamico e bizantino, ma anche grande fornitore del Nord in forte espansione,
il nuovo regno, fondato dai Normanni nel Sud, si affermò rapidamente come una
delle maggiori potenze nell’Europa che proprio allora usciva dal suo lungo
letargo”. Viaggiatori e cronisti magnificano la fertilità di Puglia e Sicilia,
“il leggendario tesoro e gli splendori della corte palermitana. Le zecche
meridionali coniavano monete d’argento che erano fra le migliori della cristianità
latina, e battevano una moneta d’oro (il tarì) così stabile e apprezzata che
circolava in ogni angolo del Mediterraneo, chiusa in un sacchetto di un’oncia
munita del sigillo reale”.
Ma
“la subordinazione dell’economia meridionale
a quella dell’Italia settentrionale” si preparava nello stesso regno
normanno. Col feudalesimo, il sistema di governo dei re normani, grandi
proprietari terrieri, con cavalieri, vescovi e abati, ai quali “i re non si
facevano scrupolo di concedere favori e privilegi”. Nacque quello che si può
ben dire asservimento volontario: i monarchi, i cavalieri, i vescovi e gli abati "avevano tutto l’interesse a dare libero corso alla pressante richiesta di grano
e di materie prime del Nord e dell’Occidente”. Si pagavano abbondantemente ciò
di cui avevano bisogno, con “maggiori entrate doganali e fiscali per il tesoro
reale”. Una combinazione così lucrosa, per loro, che “non si facevano scrupolo
di concedere favori e privilegi commerciali” ai “mercanti italiani centrosettentrionali”.
Da compensare, se utile, con limiti alle “autonomie istituzionali, e anche alle
libertà «fiscali» precedenti alla fondazione del Regno”.
Il
Sud perdette rapidamente ogni capacità produttiva, altra che il latifondo, e
ogni “funzione autonoma d’intermediazione fra Oriente e Occidente”, non avendo
più né mercanti né banchieri. Perfino il commercio delle “materia prime
alimentari provenienti dalle zone meridionali” si svolgeva “nel cuore
dell’Europa del Centro Nord, dalla Valle padana alle Fiandre, e a Pisa, Genova,
Venezia e Marsiglia": “Già dalla fine del secolo XII i mercanti settentrionali iniziarono
a portare nel Mezzogiorno panni e prodotti finiti come pagamento delle
esportazioni di grano e di fibre tessili grezze. Da allora, fra le «due Italia»
si instaurò una sorta di divisione del lavoro
e una relazione economica che non sarebbe più stata modificata”.
Per
capirsi: “L’economia di mercato delle regioni meridionali cominciò a dipendere
quasi completamente da manufatti d’importazione”, sia per i ricchi che per i
poveri, “e alla lunga si trovò anche in difetto di ceti artigiani e mercantili
indigeni. Le città meridionali non avrebbero più avuto modo di conoscere uno
sviluppo di tipo industriale e commerciale”. Era cambiata l’umanità: “Nel Due e
nel Trecento, nelle capitali e nei centri più grandi, a Palermo e a Messina, a
Napoli, a Barletta e a Trani, i banchieri e i grandi mercanti internazionali
erano in prevalenza toscani, genovesi,
veneziani. Nelle città costiere minori e nei borghi rurali della Sicilia, dove
una forte immigrazione di genti del Nord era stata necessaria per colmare i
vuoti lasciati dall’esodo e dallo sterminio delle popolazioni mussulmane (da
qui i tanti Lombardo, Novara e Piemonte dell’onomastica e toponomastica delle
aree ex saracene in Sicilia e Calabria: scalpellini, tessitori, architetti,
calafati, n.d.r. ), ma pure nelle zone cerealicole ricche pugliesi e nella più
povera Calabria, erano ugualmente soprattutto mercanti settentrionali e toscani
quelli che distribuivano le merci nelle fiere e nei mercati locali, prestavano
a usura ai proprietari rurali, incettavano la produzione agricola destinata
all’esportazione”. Carlo d’Angiò era
considerato il più ricco dei monarchi europei, ancora nel 1282, quando la Sicilia
gli si ribellò – per darsi agli Aragonesi… - “ma le zecche del Sud avrebbero di
lì a poco cessato di battere oro, limitandosi a coniare argento sotto la direzione
di monetieri toscani”.
La
“questione” era nata: “Il rapporto di forza economica fra Nord e Sud si era
completamente rovesciato nel giro di un paio di secoli, stabilendo le
condizioni di una diversità nelle strutture dell’economia e della società che
ancora oggi non è stata del tutto cancellata”.
Poi
verrà l’unità. Con il “corso forzoso”.
(continua)
Milano
Ebbe pratica ingegneresca già nel Quattrocento
– e poi pure con Leonardo. A metà secolo una fitta rete di opere idrauliche e assi
irrigatori percorreva la Lombardia, portando alla “Bassa” le acque dei
fontanili dell’Alta pianure, nonché dell’Adda e del Ticino. A metà Cinquecento
il “catasto di Carlo V” registra come “adacquatorio”, irriguo, un quarto del
pavese, un terzo della Bassa milanese, e tre quarti del lodigiano – riso, trifoglio
e foraggere, cioè bestiame e latte.
A
metà Cinquecento aveva un catasto, una rilevazione censuaria estesa a
tutto lo Stato di Mlano. Le maggiori famiglie milanesi e pavesi avevano investito
in grande nella rete dei canali. Tra esse anche i Simonetta, figli e nipoti di
“Cicco” Simonetta, di Caccuri in Calabria, il cancelliere abile di Francesco
Sforza – al quale aveva trovato anche moglie, Polisssena Ruffo, castellana pro
tempore del suo paesino.
Come poi per Stendhal, “nel 1494 i
francesi di Carlo VIII notavano con stupore che in Lombardia «la terra non
riposava mai», ed era «verdeggiante e ricca di frutti diversi in tutte le
stagioni dell’anno»” – Carlo M.Cipolla, “Storia facile dell’economia italiana
dal Medioevo a oggi”: “Il paradiso della cristianità”.
Salvini chiede e ottiene, quale condizione
per sostenere il governo Draghi, la sostituzione di Arcuri come commissario all’emergenza
Covid. Come a dire: la colpa è sua. Mentre è la Lombardia che appesta tutti,
con la sua disorganizzazione, fin dal “paziente zero”, e la corruzione. Mai rimediate
in un anno e più – giusto la sostituzione di un assessore, facile perché berlusconiano,
oltre che palesemente incapace. La Lega ha sempre ragione. I lombardi le danno
ragione.
Vaccini in mano a privati a Milano e in
Lombardia – è stato possibile comprarlo, anche se “in Svizzera”. Mentre i centri
di prenotazione pubblici non funzionano. Centri gestiti da una società
informatica regionale. Senza scandalo – solo a babbo morto, e ancora. La
corruzione è normale in Lombardia, l’autocelebrazione copre anche i ladri.
Arrivato a Milano, sbarella pure
Bertolaso, l’ex capo della Protezione Civile che seppe avviare la ricostruzione
all’Aquila dopo il terremoto: vuole risparmiare le dosi di vaccino sui settantenni
per privilegiare “le fasce più giovani e produttive”. L’aria di Milano fa così
male?
Ma poi, presto, Bertolaso, romano, ha
capito che era solo un cache-sex, uno
che non conta nulla – non lo fanno nemmeno parlare.
“Il”, “la”, l’articolo determinativo col
nome proprio, è uso tedesco – l’Adalgisa, il Carlo Emilio. È un prestito?
Quanto tedesco c’è nella parlata lombarda?
Alla fine il Tribunale di Milano ha
preso coraggio e ha dato dei ricattatori alla Procura. Dopo quarant’anni di
cieca e passiva obbedienza – la “terzietà” dei giudici milanesi. È stato in occasione
del giudizio sull’affare Eni-Nigeria, che la Procura, sentendosi sconfitta, ha
tentato di sabotare allegando “interferenze delle difese di Eni nei confronti
di magistrati milanesi con riferimento al processo”. Un ricatto. Come è nella prassi
di una Procura che ha sempre protetto gli affari sporchi. Purché opera di persone
e partiti importanti.
Volendo sociologizzare, si può dire la
Procura di Milano l’artefice della scomparsa dell’Italia, per salvare gli interessi
di amici, compagni e conoscenti. Con le sue inchieste balorde dai tempi di
Borrelli e Di Pietro, liberi poi di andare a rubare per sé: in quarant’anni ha
fatto di Milano una città molto più ricca, e dell’Italia, quarta o quinta
potenza economica modiale, un paese piccolo piccolo. “Noi non abbiamo credibilità
come capacità d’investire”, come dice Draghi, non abbiamo credibilità, “l’abbiamo
persa tantissimi anni fa”.
leuzzi@antiit.eu
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