Il cancellatore solitario dei classici
“Un lungo articolo” dedicato a
Dan-el Padilla Peralta dal “New York Times”, “(forse troppo lungo)”, spinge
Bettini a interrogarsi sul senso della denuncia dei classici con cui questo
professore di Classics a Princeton da cinque anni s’illustra. E s’arrampica
sugli specchi: bisogna capire l’America, è una nazione composta di molte “comunità”,
di neri, “asiatici di ogni provenienza, «Latinos» che di latino hanno solo il
nome”, in Italia è diverso, “noi i classici ce li abbiamo in casa”, e “soprattuto,
però, da noi gli «altri», le comunità, non ci sono”.
Ma che vuol dire, che c’entrano
gli studi classici? Bettini s’acquieta nel peggiore relativismo, di chi si
arrende senza nemmeno essere stato puntato o minacciato, e in cui tutto si
equivale, anche l’improntitudine e l’arroganza.
In America ci sono le “comunità”,
vigili, argomentative, combattive, egualitarie, perché ci sono stati e ci sono
i classici. Trenta milioni vi hanno cercato rifugio in questi ultimi trenta anni
dall’Asia, dal Sud America e dall’Africa perché ai loro paesi non avevano e non
potevano pretendere nulla di quanto hanno in America: mezzi di sopravvivenza, per
quanto poveri, cure, accudimento, anche legale, istruzione. Per un fondo di civiltà,
comunitaria, per quanto “bianca”, e legale, prima che per un fatto di risorse,
o di migliore (non tutto sperperato, rubato) uso delle risorse. Per il concetto di pubblico come distinto dal privato, dagli interessi privati e personali.
Fra tutte le culture “comunitarie”
è solo in quelle classiche che si trovano i concetti di libertà, democrazia,
uguaglianza. E di interesse pubblico. E di comunità. Non c’è più eroine e femministe della classicità greca
e anche romana. Tutte le battaglie per l’uguaglianza, anche afro-americane, da
Toussaint L’Ouverture ad Haiti a W.E.B. DuBois e Martin Luther King Jr., si
argomentano e si combattono su questi fondamenti. Roma era razzista, dove? L’impero non fu grande e duraturo perché si basava sulla cooptazione allargata e sul
libero movimento delle persone?
E l’insegnamento non ha, non lo dice
la parola stessa, una funzione pedagogica, educativa? Dei classici come del pleistocene?
Che ci sta a fare Padilla Peralta, che ci sta a fare Bettini?
Si argomenta contro i classici denunciandoli
come fondamento della “civiltà occidentale”. E questa trasponendo, con non sottile
slittamento, malizioso, in “civiltà bianca”. Da cui poi è facile scivolare al “suprematismo bianco”. Ma nei classici, nello studio dei classici, o non nel
loro non studio, nel rifiuto dello studio?
Padilla Peralta, “dominicano di nascita
cresciuto a New York” nel suo profilo wikipedia, oggi 35 anni, è stato a 29
professore di Latino e Greco alla Columbia e poi a Princeton. A Princeton si
era formato, venendo da una delle migliori scuole secondarie di New York,
Collegiate. È da qualche anno uno dei più esposti contestatori della “civiltà
bianca”. Pur essendo uno dei migliori “prodotti” di questa civiltà: dove altro
un bambino immigrato a 4 anni con la mamma, cresciuto fino a nove anni in “rifugi
per i senza casa” (case popolari) del comune di New York, avrebbe frequentato le
scuole migliori, si sarebbe laureato e addottorato a Princeton, ne sarebbe
divenuto professore associato a trent’anni? Pur essendo un illegale, uno “senza
documenti” – gli Stati devono reggersi con le leggi, oppure no?
L’articolo del settimanale del “New
York Times” due mesi fa, il 22 febbraio, è molto lungo in effetti, lunghissimo. Ma
perché vuole dare una lezione, oltre che dei “teatri” di Padilla Peralta (gli
ottanta allievi “schierati” come in un foro romano), che sempre vengono bene
sui giornali, fanno colore, di come – ottimamente - i classici hanno lavorato nella
“civiltà” americana.
Maurizio Bettini, Se l’ultima tentazione è cancellare i
classici, “la Repubblica” 17 aprile
https://www.nytimes.com/2021/02/02/magazine/classics-greece-rome-whiteness.html
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