Il racconto del lavoro appassionante
Il romanzo dell’Uomo Lavoratore
quale si è vagheggiato inutilmente (da Volponi e gli altri scrittori della “fabbrica”
Olivetti, o dai tanti neo realismi, fino alla “Storia” di Elsa Morante) nel lungo
dopoguerra, a opera di uno non “in linea” e quindi a lungo incompreso e anzi
isolato, nella sua stessa casa editrice
– benché reduce da Auschwitz eccetera. Un capolavoro, di narrativa. Forte
del linguaggio, come lingua, molto dialettale, corposa, operaia, quale si
idealizza, e come forma – ritmo, costrutti, sintassi asintattica.
Il “giuanin” di Primo Levi si
chiama Faussone, è un montatore, un impiantista, ha girato il mondo, Russia, India, Alaska, Africa di sopra e Africa di sotto, ne ha viste di tutti i
colori, come si dice, e le racconta a Levi. Gliele sa raccontare, niente di epico,
apparentemente, tutto scorre nell’ordinario ma tutto interessa. L’eroismo del
lavoro viene fuori senza dirlo, la duttilità, l’intelligenza, la passione. Con
una punta del vecchio “lavoro italiano nel mondo”, l’orgoglio del lavoro ben
fatto che in bocca a Faussone suona solo
piacevole.
C’è di tutto, la cronaca, il
dramma, lo scherzo. La tecnica, la fantasia, il chiaroscuro. Un Primo Levi insolitamente
entusiasta si lascia anche lui trascinare dal suo lavoratore universale. Coprotagonisti
sono il derrick, il rame, l’alluminio, il pieghevole, l’inossidabile, gli
elementi familiari al Faussone che li addomestica.
Un racconto anche sull’arte del racconto.
E dell’ascolto – sul ruolo del lettore-ascoltatore nel ricrearsi la narrazione.
Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, pp. 197 € 11
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