Moro non era il santino del Pci
Due pagine del “Corriere della
sera” non bastano a Guido Bodrato, il superstite della “vecchia guardia” Dc, a
dire due cose essenziali per la figura di Moro. Damato, all’epoca attivo cronista
politico, le ricorda. Il giorno in cui Moro fu rapito, il 16 marzo, si votava
la fiducia al governo Andreotti, l’ennesimo dello stracco “compromesso storico”,
che aveva relegato il Pci al ruolo di sostenitore esterno con l’astensione. Per
superare questa “conventio ad excludendum”, dice Bodrato, il Pci aveva proposto
come ministri degli “indipendenti di sinistra”, dei non comunisti, cioè, eletti
dal Pci. E Andreotti rifiutò. No, testimonia Damato, fu Moro a rifiutare: “L’ipotesi
dei ministri scelti fra gli «indipendenti di sinistra» eletti nelle liste del
Pci era stata già rimossa dalle trattative proprio da Moro, in difformità dalla
disponibilità di Zaccagnini e Andreotti a parlarne”. Berlinguer in qualche modo
aveva digerito l’esclusione. Ma poi c’era stato di peggio: la lista del governo presentata
da Andreotti “conteneva la conferma”, spiega Damato, “di due ministri
democristiani di cui i comunisti avevano chiesto l’esclusione. Essi erano Carlo
Donat-Cattin e Antonio Bisaglia, in difesa dei qual Moro alla Camilluccia (il
luogo dove si negoziò il governo, n.d.r.) disse con fermezza che la Dc non
poteva far selezionare i suoi dirigenti da un altro partito, fosse pure il Pci”.
Ce ne vuole per fare di Moro, come
fanno i morotei superstiti, e alcuni (ex) comunisti come Veltroni, l’intervistatore
dialogante con Bodrato, una icona di Berlinguer, del Pci – ce ne vorrebbe, ce ne
dovrebbe volere.
Francesco Damato, I ricordi di Bodrato su Moro, Start
Magazine 17 aprile
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