A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (456)
Giuseppe Leuzzi
Seduti
al bar, in piazza, a Pacentro, Paolo Rumiz e il figlio Andrea si chiedono (“La
leggenda dei monti naviganti”, 275): “Che ne sappiamo noi del Nord, di questi
mondi. La risposta è: niente. È più facile che un lombardo conosca l’Indonesia
che l’Abruzzo. Nei giornali e in tv le Marche, l’Abruzzo, il Molise e la
Basilicata non fanno notizia. La Calabria è nominata cinque volte meno della
Sicilia. Le Terre di Mezzo non esistono, emergono solo con i delitti”.
“A
Sud” - nota ancora Rumiz a proposito dello stereotipo “donna del Sud” - “non si
dice più «duomo», ma «chiesa madre»”.
Il Sud è “la terra delle Grandi Madri”, gli ha spiegato l’antropologo
Marino Niola. Donne vede Rumiz che chiedono grazie e fanno voti a santa Rita,
“che forse non sanno chi fosse”: a loro basta che sia “un’entità femminile… A
Sud Dio non ha bisogno di camuffarsi sotto tonache maschili”.
Per
il 22 per cento, nei conti dell’Inps, il reddito di cittadinanza va a famiglie
residenti in Campania, per per il 20 per cento alla Sicilia, per il 9 alla Puglia. Al Sud risiedono
1,8 milioni di percettori del reddito di cittadinanza, al Nord 452 mila, al
Centro 334 mila. Il reddito di cittadinanza perpetua le pensioni di invalidità.
Sono
bastate Pasqua e Pasquetta per precipitare il Sud, tutto il Sud, solo il Sud, in
arancione, in allarme. La Sardegna, che pure è un’isola e si poteva proteggere facile, è riuscita nel miracolo di passare dal bianco, praticamente
esente, al rosso, contagio assicurato. C’è
la “donna del Sud” e c’è il Sud contadino, rugoso, sapientone, saggio, anche
troppo. Invece è imprevidente, e spensierato.
In
Calabria, dove la demografia sparsa facilita il controllo sociale, i percettori
del reddito di cittadinanza non lavorano più, come è d’obbligo. Sia quelli che
lavoravano in nero, gli sfalciatori, i facchini, i manovali, sia i
contrattualizzati, per esempio i collaboratori familiari. Bisogna ricorrere,
per queste attività, a persone dell’Est – grandi faticatori peraltro. Si
incrementano così le risorse disponibili – e la domanda – o si assottigliano?
Il Sud sa solo disperdersi, accumulare si direbbe anti-costituzionale,
contrario alla sana e robusta costituzione fisica del Sud.
Per il Sud
meglio il Nord
Draghi
vara un Piano di Ripresa e Resilienza con un stima dell’impatto sull’economia
al 2026 pari a 16 punti percentuali. Per il Sud a 24 punti circa. Non si
contano le volte che il Sud ricorre nelle 273 pagine del Piano.
Draghi
presiede un governo a distinta componente settentrionale: su 23 ministri solo 4
sono del Sud - compreso l’inevitabile malinconico ministro senza portafoglio
per il Sud. Il precedente governo, a distinta presenza meridionale, il Sud se l’era
dimenticato - del Conte 2 erano meridionali 14 ministri su 22 (più 2 romani): sei
erano campani, era il governo in realtà del napoletano Di Maio, tre pugliesi, compreso
il presidente del consiglio, due lucani.
Ma
la storia non è finita. Draghi ha appena finito di annunciare che il 40 per
cento del Piano europeo è destinato al Sud, correttamente, come da vecchia e
positiva esperienza fino alla cancellazione leghista della Cassa del
Mezzogiorno, che “il Sud” insorge, Mastella, De Magistris, perfino De Luca, che
ha il senso del ridicolo: macché 40, è il 20, è il 18, è il 22. Senza sapere
niente, senza fare alcun conto, giusto per la platea. Il “Sud” è colpa del Sud,
la Lega viene dopo.
Mastella,
De Magistris, De Luca sono “Napoli”: lazzari, masanielli, triccheballacche e
putitpù. Ma c’è altro?
Il
feudo senza terra, e senza colpa
Attorno al Belìce (“Belìce”, n.d.r., piana
accentata ),”un fiume sul serio per la Sicilia, con financo dell’acqua nel suo
greto”, il principe Tomasi di Lampedusa ricorda dell’infanzia “lo smisurato
paesaggio della Sicilia del feudo, deserto”. Senza nessun senso di colpa. Ed è
questo il problema della Sicilia, isola pure ricca e ricchissima: la transitorietà
delle classi dirigenti. L’aristocrazia diventa imbelle, la borghesia che, con
difficoltà, l’ha soppiantata diventa presto disappetente, i figli destinando al
“posto”, meglio se statale, il mercante, l’artigiano, il piccolo imprenditore:
non ci sono dinastie produttive, di affari, e le attività, al meglio, vanno in surplace,
non c’è accumulo.
Un processo di democratizzazione
continuo. Che sembra una buona cosa, ma disperde le energie: nel rifiuto di sé,
dell’impegno, della professionalità, e infine nell’abuso della cosa pubblica,
che tutta (investimento, amministrazione, giustizia, ordine) viene conglobata -
anche non volendolo, è inevitabile - nell’imbuto della corruzione (familismo,
scambio, favori, oltre le forme di disonestà per denaro). Ottant’anni di
governo siciliano semi-autonomo, ben dotato, con lo statuto speciale, lo confermano.
Non c’è personalità politica o programma che riesca a cambiare questo assetto: tutti convergono, chi prima chi dopo ma
non più tardi di una generazione, in quell’imbuto, o tritacarne.
La
degradazione continua è confermata, qualche generazione dopo il primo Novecento
dei principi, da Gioacchino Lanza Tomasi, nell’introduzione al racconto di
Lampedusa “I gattini ciechi”, in cui annota il personaggio Batassano Ibba come
“un imprenditore agricolo di seconda generazione, una tipologia che nella Sicilia
del tempo comprende usura, brutalità e, alle strette, anche l’omicidio”. Cioè
mafia.
Nei
“Ricordi d’infanzia”, del Belìce e del “feudo” di Santa Margherita, che si leggono
insieme con “I gattini ciechi” nei “Racconti”, Tomasi di Lampedusa nota dei
Gerbino, sub-feudatari dei Filangeri, la famiglia materna, che “erano stati
giudici dei tribunali del «misto e mero». Misteriosa dizione, buttata là senza
più, che Gioacchino Lanza Tomasi spiega in nota: “Tramontati la feudalità e il
mero e misto imperio con la Costituzione del 1812, l’aristocrazia siciliana” si
dedica alle onorificenze, per le quali ha campo allargato: “Quanto alle
onorificenze, tendeva a strutturarsi in
una serie di famiglie con poteri (ridotti alla sola distinzione onorifica) più
ampi di quel di cui aveva potuto disporre al tempo del fidecommesso”. Di quando
cioè aveva i beni, col diritto di legiferare (Il “mero e misto”), e poteva legarli alla
successione con i titoli, indivisibili, col maggiorascato. Di una feudalità quindi
senza feudi, solo albagia, e gelati sciolti.
Un
mondo alieno dagli affari, dall’obbligo, biblico e non, del lavoro, dell’applicazione.
Non accettava la commercializzazione dei beni, si illudeva.
Questo
succedeva non soltanto in Sicilia, anche in Calabria e nel napoletano.
Aspromonte
Paolo
Rumiz immagina, nella “Leggenda dei santi naviganti”, la sua cavalcata per le
Alpi e gli Appennini - il “Pianeta del Silenzio” - a dorso di mulo, la Topolino
modello 1955, un segnale di fumo, di cima in cima come forma di comunicazione,
“lungo le cime chiamate «Pen», per quel promontorio interminabile chiamato
Italia”, per la continuità della linea montuosa euroasiatica, a partire dal Bhutan
: “Fino al monolito dell’Aspromonte, fermo in mezzo al Mediterraneo. Il grande
capolinea, dirimpettaio di un altro fuoco da leggenda, l’Etna”.
“Aria
fresca, elettrica, eccitante, sottile, che favorisce la pazzia”: Montale la
trova a Sils-Maria (luogo che si lega a Nietzsche, Grande Pazzo), nell’Engadina.
La stessa si respira nella Montagna, l’Aspromonte: boscosa, assorta, o
trasognata, che guarda il mare, come stiracchiandosi a un perpetuo risveglio. E
la pazzia?
Gautier,
“Jettatura”, dà al protagonista, che sarà vittima a Napoli del malocchio, il
nome di Paul d’Aspremont.
Molta
letteratura dell’Aspromonte è francese, provenzale. Leggiadra per lo più,
cortese. L’Aspromonte italico dei viaggiatori è curioso, scherzoso, da Bartels
a Lear, e fino a Norman Douglas prima della Grande Guerra. L’Aspromonte
calabrese che subentra , da Alvaro in qua, è tenebroso, in qualche modo
malefico – si direbbe gotico, ma non he ha la convinzione, e forse lo spessore
storico, di personaggi, contesti, tradizioni.
Il turismo non c’è, è il pregio oggi più
apprezzato - rari anche i trekkers,
rarissimi. Eccetto che, nella buona stagione, quello potabile. L’acqua buona è
una fissa e si fanno viaggi di ore per riempire batterie di bottiglie alle
sorgenti. Una nobiltà di molti quarti, risalendo a Corrado Alvaro, Perri, e
precedenti. E generosa di molte poppe, come una Artemide antica - il culto delle fonti è molto pagano: delle Vile
sopra Polsi, di Bocali o Fontanelle, di Materazzelle, della Prena (pregna, di
femmina incinta). Francesco De Cristo tentò un elenco delle sorgenti in
“Vagabondaggi sull’Aspromonte”, 1932.
Lampedusa concorda - “Gattopardo”, p. 223:
“«Non c’è che l’acqua a essere davvero buona», pensò da autentico siciliano”. Ma ha rubato la
battuta al calabrese – l’“autentico siciliano” ama il vino, Lampedusa era
astemio, rigido, di programma.
Paolo
Rumiz vede nell’Aspromonte - nella sua fascinosa riscoperta della Montagna, luogo
rimosso dell’Italia (il parente povero, il nano, l’handicappato) che ha intitolato
“La leggenda dei monti naviganti”, una montagna femminile: “Avvicinandosi al
grande faro dell’Aspromonte, succede che l’esplorazione dei monti scopre un
mondo sempre più femminile, sempre più arcano, e diventa incontro con gli dèi
in esilio”.
Ma
non tutto nell’Appennino è fiori: “Dei partigiani anch’essi (il riferimento di
Rumiz è al fatto che della Montagna si è parlato l’ultima volta per la
Resistenza, n.d.r.), costretti alla macchia dal dilagare del brutto,
dell’ignoranza e della volgarità”. In Aspromonte forse più che nel resto
dell’Appennino.
leuzzi@antiit.eu
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