Giuseppe Leuzzi
Anche
al cimitero il Sud è un altro. “La città dei mori di Aquilonia Nuova è tutta sopra
il livello del terreno, come spesso accade al Sud. Linda, curatissima, con un
alto muro di cinta e popolata da signore in nero che paiono uscite da un
romanzo di Silone” – Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”, 293.
Seppelliti sottoterra non piace, ai morti e ai vivi. È la legge, e allora si
sopperisce con i tumuli. È uso antico.
Un’illusione
come un’altra? Ma non fa male.
Fa
senso vedere Michele Santoro in tv, in collegamento amichevole con Paolo Mieli,
rifarsi a Falcone e Borsellino. Proprio lui che, quando era una vedette tv con
“Samarcanda”, nel 1990 o 1991, s’intignò a delegittimare Falcone. Anzi,
propriamente a criminalizzarlo. Facendolo accusare da Orlando, un (ex) democristiano
nemico di Falcone, di depistare le indagini.
Senza diritto di replica, o di accesso.
“Canadian 'ndrangheta connection”, tutti assolti. Ma tardi, uno si è già suicidato.
Gregoraci,
che poi è risultato innocente, dovrebbe in teoria essere stato ritenuto
colpevole, se è stato carcerato. Ma aveva bisogno di carte, che non gli sono
state date – malgrado i solleciti delle carceri dove era stato variamente
rinchiuso.
Un
“muro del silenzio” venne evocato in Assise in Francia settant’anni fa nel
processo celebre detto dell’“affaire Dominici”, un vecchio contadino condannato
a morte per l’assassinio di una coppia di turisti inglesi e della loro figliola.
Jean Giono, che seguì perplesso il processo - del tutto indiziario e mal
condotto in Assise - perché Dominici era un contadino del suo “paese”, delle
sue contrade, s’inalbera: “Questo muro non esiste nella regione. La formula è efficace
ma la cosa non esiste. Non esisteva. Io ho sessant’anni. In quarant’anni non lo
mai incontrato. Chi ha costruito questo muro? Chi lo ha reso incrollabile? Il
crimine? Non spiega niente. Al contrario, il crimine è sempre stato denunciato,
e immediatamente”. Anche al Sud. Ma non seguono i fatti. E allora…
La donna del Sud
“A
Sud non si dice più «uomo», ma «chiesa madre»”: Paolo Rumiz, “La leggenda dei
monti naviganti”, 307, raggiunge, oltre i luoghi comuni d un giornalismo pigro,
una tradizione di grande e consolidata cultura. Delle donne che chiedono grazie
e fanno voti a Santa Rita, “che forse non sanno chi fosse”. nota: “A loro bastava
incontrare un’entità femminile. Solo una donna poteva portare salute e
fertilità, recapitare le loro richieste alla Grande Signora oltre il muro
dell’invisibile. A Sud Dio non ha bisogno di camuffarsi sotto tonache
maschili”.
Tutto
è materno al Sud, anche la mafia – Rumiz se lo fa spiegare da Marino Niola,
dall’antropologo: “Persino la criminalità organizzata ha un lessico familiare
materno. Si dice: ‘Mamma comanda e picciotto fa’. Il capo si chiama ‘Mammasantissima’.
Il pizzo di chiama ‘olio per la Madonna’”.
Sudismi\sadismi
“Dosi
ai cinquantenni e anziani in attesa. Le strane priorità decise al Sud”: il
“Corriere della sera” ci fa una pagina. Poi uno legge l’articolo e scorre le tabelle
della stessa pagina, e vede che non è vero. Il giornale di Milano non vede l’ora
di ributtare la pandemia sul Sud – non è il primo tentativo.
Quelo
che si vede dalle tabelle regionali è che al Sud un po’ tutte le regioni sono indietro
nei vaccini, seppure di poco, rispetto alle altre. Quello che non si dice è che
alcune, sicuramente la Campania e la Calabria, non hanno avuto i vaccini in proporzione
alla popolazione per classi di età, come si è fatto in altre regioni, secondo
il programma di vaccinazione nazionale.
Pavese calabrese
Molte
scoperte e una sorta d’immedesimazione fa Cesare Pavese nei dieci mesi che trascorse
a Brancaleone in Calabria al confino, tra 1935 e 1936 – dopo essere stato in
carcere a Torino e Roma per antifascismo. Forse a sua insaputa ma forse no,
dato che queste impressioni traspone alcuni anni dopo nel racconto-romanzo “Il
carcere”, che pubblicherà infine nel 1948 – con una quarta di copertina, alla
riedizione Einaudi successiva, del 1990, che prospettava “la scoperta di un’altra
Italia da parte di un settentrionale”. E di più, anche se senza alcun riferimento
diretto, nel “Dialogo con Leucò”, che scrisse tra fine 1944 e inizio 1945, a
Roma, a cui tanto teneva – se lo portò in albergo la notte del suicidio.
Il
paese all’arrivo lo respinge, “terre aride” e “spiaggia desolata”. Tutto lo
respinge, non solo il posto: Pavese è fortemente cosmopolita di cultura, ma non
ha man viaggiato, se non dal paese a Torino. La desolazione è però solo un
primo riflesso – Brancaleone è nell’allora arida e desertica Jonica (per
contrapposto alla fascia tirrenica, allora verde, fertile, ricca: come la geografia
economica può mutare rapidamente), oggi Locride, ma Pavese nel 1935 può leggervi, con continuità, la “Gazzetta del popolo”, il giornale di Torino (oggi
non potrebbe…). Si profonderà ampiamente,
nelle lettere più ancora che ne “Il carcere”, in apprezzamenti e ringraziamenti, per l’ospitalità,
la correttezza, la generosità eccetera. E ne mutua i linguaggi.
Ne
fa suoi, inavvertitamente, alcuni modi di dire. Soprattutto nei dialoghi: “Siamo
nelle mani di Dio”. “Conosciamo qualcuno, se cosa vi occorre”. “Fare razza”,
per fare gruppo, famiglia, banda. “Quello è storto”, non sa difendersi. “Che
scherzate?”, non se ne parla. È ben locale, calabrese, l’osservazione: “Qui sono
tutti avvocati. Hanno tutti un parente in prigione”.
Alla
seconda pagina de “il carcere” ha già colto il senso e lo schema della
conversazione, del commercio umano: passeggiare tra uomini sottobraccio, i
saluti “asciutti” e “il riserbo”, gli scambi laconici (“Tutto il paese
conversava così”, per ellissi, per rinvii a significati noti, “a occhiate e
canzonature”, bonarie), l’autocanzonatura (“Siamo gente inquieta che sta bene in tutto
il mondo ma non al suo paese”, “Si è vecchi quando si torna al paese”, “Voialtri
avete il lavoro, noi abbiamo l’amore”).
Leucò,
Leucotea, dea bianca, s’identificava in antico con Ino, dea marina. Ed è a Brancaleone che Pavese “scopre”
il mare, come presenza invadente. Con fastidio e con sollievo – è il solo
luogo, la spiaggia, dove gli piace passeggiare, da solitario, e può farlo, per “prendere
l’aria”, senza doverne dare ragione. Una superficie che a volte respinge, per
la monotonia, ma anche popola, di ninfe. Lo stesso che in paese, dietro la
serva scura e altera che affascina il suo alter ego della narrazione, Concia, ragazza
e madre, che vuole “caprigna” – capro è la personificazione in antico della
lussuria o desiderio. Ma gode anche i favori, in carne, assicura, non nel mito,
di una classicissima Elena, che lo accoglie sorridente e muta al suo interno,
anch’essa bianca, e grande – Grande Madre, Dea Madre.
Calabria
Vanta
“l’aria più fine in tuta Europa”, nel sito in (ottimo) inglese su wikipedia: “La
Calabria ha anche l’aria più pulita
dell’Europa. La scoperta è stata fatta da una ricerca del 2010 sulla qualità
dell’aria, nel corso dela quale i nanopatologi rilevarono che un’area del parco
Nazionale della S ila aveva l’aria più
pura in Europa”.
Nanopatologia, termine di nuovo conio, appena vent’anni fa.
Era
l’aria, in chiave ironica (“a zannella”) una canzone di Otello Profazio
gionvicello: “Cca’ ‘ndavimu l’aria” – come dire: abbiamo l’aria, e ci basta.
“I
miei compagni erano in maggioranza calabresi”, racconta a Paolo Rumiz nel
maggio del 2005 Carlo Orelli, 110 anni, “cavaliere di Vittorio Veneto, ultimo testimone
vivente del 24 maggio 1915”, dell’“armata perduta” sul Carso all’inizio
trionfale della Grande Guerra, del 32mo Reggimento Fanteria, Brigata Siena:
“Non si capiva niente di quello che dicevano. Bravi e analfabeti”. E morti, si
suppone: “Ci distrussero. Eravamo troppo esposti. Dopo i primi assalti restammo
in venticinque su trecentotrenta. Un’ecatombe”.
In
tutti i ricordi della grande Guerra ci sono fanti calabresi, analfabeti e
bravi.
Il
Faussone di Primo Levi in “La chiave a stella”, il romanzo dell’Uomo
Lavoratore, il piemontese specializzato che sa tutto di tutti i cantieri,
dall’India alla Russia, dall’Alaska all’Africa, ha interiorizzato i calabresi a
Torino. Nella tipologia degli ingegneri che fa allo scrittore – un ingegnere
gli ha creato un pasticcio in India - ce n’è anche uno (p.122) “che dormiva in
piedi e batteva la calabria”, batteva la fiacca.
Il detto veniva dalla Francia? Girando
per la Calabria nel 1812, in fuga dalla madre, il marchese de Custine annota
nelle lettere di avere capito perché in Francia per indicare un uomo senza
vitalità si diceva: «Gira per la Calabria».
In
precedenza però Faussone racconta che in Russia si è immedesimato con i suoi
nuovi concittadini, a p. 99: “La brava gente si somiglia dappertutto, e poi lo
sanno tutti che fra i russi e i calabresi non c’è tanta differenza. Erano bravi,
puliti, rispettosi e di buon umore”
Uno
storico la dirà vittima dei commissari. Comunali, sanitari, dei porti, e di
ogni altro centro di spesa. Un’orda di generali, prefetti, vice prefetti e
questori in quiescenza, e di funzionari prefettizi a caccia di diarie, con
autista, e orario di lavoro casa-casa. Un mercato molto calabrese, però: i
funzionari prefettizi che moltiplicano i commissariamenti, di comuni, asl, aziende
pubbliche e quant’altro capita a tiro, sono ben locali. Altrove non li avrebbero
cacciati? Sì.
“Arghillà,
zona Nord di Reggio Calabria, in seimila nelle case popolari, molte occupate”,
abusivamente, racconta Smorto sul “Venerdì di Repubblica: “Macchine smontate
bruciate, accatastate. Immondizia”, etc. – “amico, dammi 5 euro per il gasolio”.
È “una popolazione al 50 per cento di ex rom, che chiama «italiani» l’altro 50
per cento, che annovera anche maghribini, filippini, polacchi”. Quale altra città ha una tale concentrazione?
Arghillà,
dove un tempo si producevano ottimi vini, è la new town di Reggio. Col carcere e la città giudiziaria. Zona molto
bruta di architetti, che deturpa dall’alto la bella cornice (ex) naturale della
città. Giudici e polizie stanno lì, ma
non vedono non sentono.
Si
entrava in città in primavera, tra Catona e Arghillà, nell’agro di Villa San
Giuseppe, tra le raffiche di zagara degli agrumeti.
Di
mattina presto, se si viaggiava in città per lavoro, per le pratiche, per l’apertura
degli uffici alle otto, si avvertiva d’inverno anche l’odore pungente delle arance
sull’albero. Misto alla zagara, che per le arance di san Giuseppe, tardive, di
aprile-giugno, fiorisce tardi a febbraio.
Il detto veniva dalla Francia? Girando per la Calabria nel 1812, in fuga dalla madre, il marchese de Custine annota nelle lettere di avere capito perché in Francia per indicare un uomo senza vitalità si diceva: «Gira per la Calabria».
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