Il saggio più radicale, quasi avversativo, sul riso è di Baudelaire
giovane, radicato nel pessimismo cristiano. Nel saggio del titolo, “De
l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques” –
assortito in questa raccolta di un saggio sui caricaturisti franecsi e di uno
su quelli stranieri. Tre scritti del 1857, simultanei della prima pubblicazione
dei “Fiori del male”.
Più che un’analisi, un’accusa: “Il comico è un elemento dannabile di
origine diabolica”. Il nocciolo riprendendo da Philippe de Chennevières (“Jean
de Falaise”), “Contes normands”, di quattro anni prima, storico dell’arte e
scrittore, coetaneo e amico: “Nel paradiso terrestre… la gioia non era nel
riso”. Il riso è come le lacrime, una passione violenta: “La gioia e le lacrime
non possono farsi vedere nel paradiso di delizie”.
Di suo Baudelaire è violento: ”Il riso vien dall’idea della propria
superiorità. Idea satanica se mai ce ne fu una! Orgoglio e aberrazione.” E
ancora: “Il riso è una delle espressioni più frequenti e più numerose della follia”. Il riso è “un sintomo di debolezza”. Insomma,
“il riso è satanico, e dunque profondamente umano”. E cioè “profondamente
contradittorio… Segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita –
miseria infinita relativamente all’Essere assoluto di cui possiede il concetto,
grandezza infinita relativamente agli animali”.
Non è un segno di saggezza: “Il saggio non ride che tremando”. Anche
se “non è l’uomo che cade che ride della sua propria caduta, a meno che non sia
un filosofo”, che non abbia acquisito la capacità di sdoppiarsi, di vedersi
fare. “Gli aniamli più comici sono I più seri, come le scimmie e i pappagalli”.
Il riso dei bambini è altra cosa, è gioia. “Una gioia di pianta”,
un’efflorescenza: “La gioia di ricevere, la gioia di respirare, la gioia di
aprirsi, la gioia di contemplare, di vivere, di crescere”. La chiave? “È in
noi, cristiani, che è il comico”. Il riso distinguendo, come malefico, una
condanna, dal sorriso.
Stendhal si era esercitato in tema, “Du rire”, anche lui con ambizioni trattastiche.
Baudelaire è più diretto, impositivo. Il suo, dice, è “una articolo di filosofo
e d’artista”. Altrove, in “L’Heautontimorumenos”, una composizione di “spleeen
e ideale” (poi confluita nei “Fiori del male) conclude: “Sono del mio cuore il
vampiro,\ uno di quei grandi abbandonati,\ al riso eterno condannati,\ e che
non possono più sorridere”. In realtà lavora, e assiduamente malgrado la
vocazione da dandy, critico culturale
indaffarato ma leggibile e per qualche aspetto sempre nuovo, su aspetti
dsparati dell’attività estetica. Buon numero di paginm sono dedicate a E.T.A.
Hoffman, specie a “La principessa Brambila”, il racconto romano – “un
catechismo di alta estetica”. Altre alla pantomima inglese - che Parigi
curiosamente non comprende, gli spettacoli restano freddi – all’insegna
dell’eccessivo, “il comico assoluto”.
Sui caricaturisti si era già esercitato nel “Salon” del 1846, la rassegna giornalistica dell’esposizione. I due saggi della raccolta
raggruppano in analisi sintetiche ua ventina di artisti. Hogarth è “spirito
sfacciato e ipocondriaco”: di lui si dice che è “l’interramento del comico”,
Baudelaire preferisce dire “il comico dell’interramento”, epitome di “quel che
di sinistro, di violento e di impositivo si respira in quasi tutte le opere del
paese dello spleen”, l’Inghilterra. Calotin sa di chiesa. Daumier “un saggio
entusiasta”. Grandville “spirito maledettamente letterario”. Gavarni “un
artista, bizzarro nella sua grazia”. Goya, che è “sempre un grande artista,
spesso terrificante”, introduce nel comico il fantastico.
Quattro pagine si meritano gli italiani, ma succose. La caricatura
in Italia è fredda. Per esempio di Leonardo. Compreso Pinelli, più espressivo
(trasgressivo) per lo stile di vita che per le sue incisioni. “È un francese
che resta il miglior bouffon
italiano”, è Callot – che manca nella rassegna dei caricaturisti francesi: “Gli
artisti italiani sono più buffoni che comici. Mancano di profondità ma
subiscono tutta la franca ebrietà della gaiezza nazionale. Materialista, come è
generalmente il Mezzogiorno, il loro scherzo sente sempre di cucina e gabinetto
di decenza”.
Charles Baudelaire, De l’essence du rire, Folio, pp. 123 €
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Più che un’analisi, un’accusa: “Il comico è un elemento dannabile di origine diabolica”. Il nocciolo riprendendo da Philippe de Chennevières (“Jean de Falaise”), “Contes normands”, di quattro anni prima, storico dell’arte e scrittore, coetaneo e amico: “Nel paradiso terrestre… la gioia non era nel riso”. Il riso è come le lacrime, una passione violenta: “La gioia e le lacrime non possono farsi vedere nel paradiso di delizie”.
Di suo Baudelaire è violento: ”Il riso vien dall’idea della propria superiorità. Idea satanica se mai ce ne fu una! Orgoglio e aberrazione.” E ancora: “Il riso è una delle espressioni più frequenti e più numerose della follia”. Il riso è “un sintomo di debolezza”. Insomma, “il riso è satanico, e dunque profondamente umano”. E cioè “profondamente contradittorio… Segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita – miseria infinita relativamente all’Essere assoluto di cui possiede il concetto, grandezza infinita relativamente agli animali”.
Non è un segno di saggezza: “Il saggio non ride che tremando”. Anche se “non è l’uomo che cade che ride della sua propria caduta, a meno che non sia un filosofo”, che non abbia acquisito la capacità di sdoppiarsi, di vedersi fare. “Gli aniamli più comici sono I più seri, come le scimmie e i pappagalli”. Il riso dei bambini è altra cosa, è gioia. “Una gioia di pianta”, un’efflorescenza: “La gioia di ricevere, la gioia di respirare, la gioia di aprirsi, la gioia di contemplare, di vivere, di crescere”. La chiave? “È in noi, cristiani, che è il comico”. Il riso distinguendo, come malefico, una condanna, dal sorriso.
Stendhal si era esercitato in tema, “Du rire”, anche lui con ambizioni trattastiche. Baudelaire è più diretto, impositivo. Il suo, dice, è “una articolo di filosofo e d’artista”. Altrove, in “L’Heautontimorumenos”, una composizione di “spleeen e ideale” (poi confluita nei “Fiori del male) conclude: “Sono del mio cuore il vampiro,\ uno di quei grandi abbandonati,\ al riso eterno condannati,\ e che non possono più sorridere”. In realtà lavora, e assiduamente malgrado la vocazione da dandy, critico culturale indaffarato ma leggibile e per qualche aspetto sempre nuovo, su aspetti dsparati dell’attività estetica. Buon numero di paginm sono dedicate a E.T.A. Hoffman, specie a “La principessa Brambila”, il racconto romano – “un catechismo di alta estetica”. Altre alla pantomima inglese - che Parigi curiosamente non comprende, gli spettacoli restano freddi – all’insegna dell’eccessivo, “il comico assoluto”.
Sui caricaturisti si era già esercitato nel “Salon” del 1846, la rassegna giornalistica dell’esposizione. I due saggi della raccolta raggruppano in analisi sintetiche ua ventina di artisti. Hogarth è “spirito sfacciato e ipocondriaco”: di lui si dice che è “l’interramento del comico”, Baudelaire preferisce dire “il comico dell’interramento”, epitome di “quel che di sinistro, di violento e di impositivo si respira in quasi tutte le opere del paese dello spleen”, l’Inghilterra. Calotin sa di chiesa. Daumier “un saggio entusiasta”. Grandville “spirito maledettamente letterario”. Gavarni “un artista, bizzarro nella sua grazia”. Goya, che è “sempre un grande artista, spesso terrificante”, introduce nel comico il fantastico.
Quattro pagine si meritano gli italiani, ma succose. La caricatura in Italia è fredda. Per esempio di Leonardo. Compreso Pinelli, più espressivo (trasgressivo) per lo stile di vita che per le sue incisioni. “È un francese che resta il miglior bouffon italiano”, è Callot – che manca nella rassegna dei caricaturisti francesi: “Gli artisti italiani sono più buffoni che comici. Mancano di profondità ma subiscono tutta la franca ebrietà della gaiezza nazionale. Materialista, come è generalmente il Mezzogiorno, il loro scherzo sente sempre di cucina e gabinetto di decenza”.
Charles Baudelaire, De l’essence du rire, Folio, pp. 123 € 2
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