Cinecittà a Hollywood-Corea
Una tranche-de-vie. Di una coppia giovane, immigrati coreani,
“sessagisti” dei polli per dieci anni in California, che provano a cambiare
vita e fortuna, mettendo a coltura un terreno abbandonato nel profondo Arkansas,
tra “i bifolchi”, tutti in qualche modo suonati. Mettendosi a coltivare verdure
“coreane”, cioè al gusto coreano. Non c’è l’acqua, bisogna trovarla. Ci vuole
un trattore, quindi ci vuole un prestito. Il bambino ha problemi di cuore,
quindi ci vogliono cure – ma qui tutto va bene. La nonna, svanita, causa catastrofi senza fine. La parrocchia non aiuta, gli altri parrocchiani sono e
stanno peggio. Insomma, due ore di disgrazie. I grossisti che si erano impegnati a
ritirare il raccolto si tirano indietro. La coppia decide di dividersi, ma poi
forse no - malgrado tutto, siamo ancora
in chiave di American Dream.
Una copia - non in bella: è incredibile come il neo
realismo sia rivissuto in Asia, soprattutto in Corea. Da asiatici però americani.
Anzi, si professi il nuovo cinema americano, sempre in testa da qualche
anno agli Oscar – dopo l’ondata latina: “Parasite”, “Nomadland”, questo “Minari”, il
prezzemolo coreano. In chiave minimalista, sommessa. E della rassegnazione,
senza sovversione: all’epoca dei disincanto, anzi della crisi. Ma strappalacrime,
a effetto, e poco immaginativo – il neo realismo è “poetico”.
Lee Isaac Chung, Minari
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