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I commissari al non fare
Dopo undici anni di commissariamento, la sanità in
Calabria è al suo peggio. Al peggio di tutta l’Italia, con i Livelli essenziali
di assistenza (lea) in caduta libera: l’ultima rilevazione della Corte dei
Conti li dà all’ultimo posto in Italia, a quota 125. Ben al di sotto della
sufficienza, che si colloca a quota 160.
La Calabria è stata particolarmente sfortunata
nelle scelte governative dei commissari – fino alla farsa di un anno fa:
incapaci o inutili. Ma è l’istituzione che fa acqua.
Il commissariamento funziona in azienda, con la
legge Prodi. L’azienda è un corpo singolo, individuato, articolato, e attivo.
Non va nella Funzione Pubblica. Per due motivi. Perché è riserva di funzionari
pubblici, non di manager con una carriera e una prospettiva. È gestita da gente
cioè che non ha competenze specifiche, se non burocratiche, e non ha stimoli,
se non cavarsela senza danno. E perché agisce su un corpaccione informe.
Compresa la sanità, che si fa figurare organizzata su criteri aziendali ma è
pur sempre un carrozzone.
Portato alla luce critica nella sanità, in Calabria
come in Campania, a Massa eccetera, il commissariamento è specialmente funesto
dove è più diffuso, nei Comuni, qualora gli organi elettivi siano per un
qualche motivo invalidati. Un lungo periodo in questi casi s’impone,
diciotto mesi, di commissariamento,
senza mai un risultato positivo che si ricordi – l’attività dei commissari è di
bloccare ogni attività.
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