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Il mondo com'è (428)
astolfo
Deportazioni – Erano correnti
nell’antichità, di grandi gruppi e anche di intere popolazioni, parte della
strategie militari. La più famosa, o più ampia, sarà stata quella operata dai
Romani tra gli Apuani e i Sanniti, due
popolazioni che resistevano al dominio romano. Anche i Geti-Daci, le antiche
popolazioni dell’attuale Romania, furono largamente deportati dall’imperatore
Traiano e dai successori – la Romania attuale si ripopolerà con tribù
sarmatiche, germaniche, turco-tatare, e con le popolazioni erranti, rom e
ebrei.
Federico
II di Svevia, il re di Palermo, la praticò con una certa frequenza, anche se
non in forme radicali. La più famosa è quella dei mussulmani del regno a Girifalco
e a Lucera. Gli abitanti di Celano, in Abruzzo, che resistettero per due anni
al suo assedio, li deportò a Pantelleria – si erano rifiutati di cedergli i
diritti di gabella sulla transumanza, allora, e ancora fino al primo Novecento,
praticata su larga scala da e per il Tavoliere delle Puglie.
Kennedy –
Fu vera gloria? Recensendo sulla “New York Review of Books” il primo volume della nuova biografia di John
Fitzgerald Kennedy, il presidente assassinato a Dallas, “JFK: Coming of Age in
the American Century, 1917-1956” di Fredrik Logewall, lo storico Michael Kazin,
specialista dei movimenti sociali, si chiede: “Come mai, quasi sei decadi dopo
il suo assassinio, gli Americani si occupano così tanto di lui e, per la gran
parte, continuano ad averne così alta opinione?” Perché, conclude subito, ha fatto
poco o nulla: era soprattutto un operatore astuto, e oggi quello che si direbbe
una celebrità, più che un grande leader politico, nel suo partito e al governo
dell’America.
Kazin, attivista in gioventù
degli Students for a Democratic Society, che contestavano la guerra in Vietnam,
nonché redattore di Dissent” ed esponente della New Left, trova nella guerra in
Vietnam, che Kennedy avviò surrettiziamente, un grosso titolo anzi di demerito. E non si può non dargli ragione: Kennedy la avviò come una avventuretta, quando si sapeva, dalla Corea, quanto era forte il sovietismo in Asia, e da Dien Bien Phu quanto era resistente il nazionalismo vietnamita. Nel quadro del confronto con l’Unione Sovietica, il suo mito si fa forte del
sostegno assicurato alla Germania Occidentale dopo l’erezione del Muro a
Berlino, col famoso discorso “Ich bin ein
Berliner”, sono un berlinese. Ma nel complesso la gestione anche del confronto con Mosca fu negativa e anzi
disastrosa.
Una serie di errori
commessi contro Castro (tentativi di assassinio) e contro Cuba (l’invasione fallita
ala Baia dei Porci) hanno fatto di Fidel Castro un polo di sovversione, e hanno
alienato agli Stati Uniti l’America Latina, aprendo la via ai regimi militari.
La prova di forza contro i missili sovietici a Cuba nella seconda metà di
ottobre del 1962 fu una crisi teatrale. Preceduta dal lassismo nell’avvicinamento
di Castro a Mosca e nella stessa questione dei missili. Poco è stato fatto
durante la presidenza Kennedy per i diritti civili – niente al confronto con la Great Society del successore Lyndon
Johnson: la battaglia contro il segregazionismo, lui uomo del Sud, le leggi sui Diritti Civili, sui Diritti di Voto, sull’istruzione pubblica,
l’assistenza medica ai pensionati e ai poveri, Medicare e Medicaid. Di più contro la mafie, ma a opera
del fratello minore Robert, ministro della Giustizia. È tuttavia il presidente
meglio ricordato e più ammirato. Per la fine tragica - spettacolare, thrilling (l’assassino assassinato…). Ma
già prima adorato, malgrado i tanti pericoli aperti agli Usa, per inesperienza, per superficialità.
I “mille giorni di
Kennedy” aleggiano nell’opinione come una pietra miliare. Nei sondaggi Kennedy
è costantemente il terzo miglior presidente degli Stati Uniti, dopo Washington
e Lincoln – alla pari con F.D.Roosevelt. Vinse nel 1959 per pochi voti su Nixon,
ma l’America pensa di averlo votato unanime, plebiscitato. “Camelot”, il regno
ideale di re Artù e dei suo Cavalieri senza macchia e senza paura, è riferimento
costante nella pubblicistica sugli anni di Kennedy.
È cresciuto nell’immediato
attorno a Kennedy in America, e non è mai svaporato, l’analogo del culto delle
celebrità in Europa, che fino ai suoi tempi, metà Novecento, era soprattutto
culto delle regalità. Kennedy richiama e si onora come una sorta di principe.
Lo stesso la sua famiglia, i suoi discendenti, i suoi ascendenti. Se ne
osservavano, diffondevano, commentavano le minute attività quotidiane. Sue personali,
dei bambini, della moglie Jacqueline. E quello che non si poteva commentare in
gloria veniva sottinteso sempre positivamente. I continui adulteri. La
persecuzione di Marylin Monroe, e forse la violenza. L’incostanza. E il lato oscuro:
forse la cocaina, forse la contiguità con gruppi mafiosi.
Il mito del presidente Kennedy si
estende alla famiglia. Ai fratelli Robert, cui viene dato più credito politico,
anche lui assassinato, e Ted, senatore e leader del partito Democratico per molti
anni, ai suoi figli, alla vedova Jacqueline. E ai collaterali e ascendenti. Le
cui avventure e disavventure sono state e continuano a essere vissute con largo
seguito. Col trasporto, misto di curiosità e di orgoglio, che hanno gli inglesi per i
minuti eventi della loro famiglia reale.
L’accostamento era di
Gore Vidal nel suo primo volume di memorie, “Palinsesto”, 1995, un anno dopo la
morte di Jacqueline. A proposito di quest’ultima, Jacqueline Bouvier, sua “cugina”.
Che rappresenta ragazza nobile e algida,
per questo pronta a un matrimonio di convenienza con i Kennedy, di ricchezza recente
ma famiglia politica potente. I Bouvier erano ricchi di quinta generazione, e parte
della High Society di New York. Il padre di Jacqueline era broker, agente di
Borsa, gestore di fiducia dei patrimoni ricchi. Vidal, nipote del senatore
dell’Oklahoma Thomas Gore, figlio della sua unica figlia, Nina – da loro prenderà
il nome da scrittore - era giovane in
vista anche lui nell’alta società americana. Ed aveva avuto a patrigno, al
secondo matrimonio della madre Nina Gore, Hugh D. Auchinloss Jr., un avvocato anche
lui reputato agente di Borsa, che più tardi sarà patrigno di Jacqueline, avendo
sposato sua madre Janet Lee Bouvier, nata Janet Norton Lee, di famiglia
cattolica irlandese, immobiliaristi a New York, anch’essa alle seconde nozze,
dopo il divorzio da John Vernon Bouvier III, il padre di Jacqueline. Jacqueline era la “moglie” ideale anche per il
patriarca dei Kennedy, il padre Joseph, che aveva disegnato e perseguito il
futuro dei maschi in politica, e per le numerose figlie aveva cercato matrimoni titolati,
principeschi. Come usava in quegli anni – in Italia è stato lo schema del senatore
Agnelli per i nipoti e le nipoti.
Joseph aveva fatto fortuna a Wall Street con metodi
disinvolti, ma ne era uscito poco prima del crac del 1929 – avendo già costituito
un fondo da un milione di dollari per ciascuno dei nove figli. Si criticherà
molto il suo ruolo nel voto popolare dell’elezione presidenziale del 1960, che
John vinse senza la maggioranza assoluta dei voti, e per sole 117 mila
preferenze su Nixon, 49,7 contro 49,5 per cento. Ci furono irregolarità nel
voto in Texas e Illinois. Che molti esponenti repubblicani, compreso il presidente
uscente Eisenhower, avrebbero voluto contestare. Ma Nixon si rifiutò. Con
questa motivazione, avvocatesca (Nixon era avvocato) ma precisa: “Non so pensare
a un esempio peggiore per le nazioni all’estero, che per la prima volta stessero
tentando di introdurre processi elettorali liberi, che quello degli Stati Uniti
in lite sui risultati delle nostre elezioni presidenziali, e anzi insinuando che
la presidenza stessa possa essere stata rubata nell’urna elettorale”. Nixon è
il presidente americano più disprezzato – prima di Trump.
Questione spartana – Perché Sparta non ebbe grandi uomini? È vecchio
argomento, ora desueto. L’opinione di A. Gide (“Journal”, 1895) è che “la
perfezione della razza impedì l’esaltazione dell’individuo”. Per un anticipo di
eugenetica anche. Che permise di creare il canone maschile e il vigoroso ordine dorico. Ma con la soppressione
dei meno capaci portò anche alla soppressione delle specificità, delle rarità.
Gide lo nota da entomologo, o botanico: “Con la soppressione dei gracili si sopprime
la varietà rara – fatto ben conosciuto in botanica, o almeno in floricultura, i
fiori più belli essendo spesso generati da piante all’aspetto sofferente”.
Anche
l’emofilia, la malattia dei ricchi e potenti che si sposavano tra di loro e
quindi spesso tra parenti (in uso fino all’Inghilterra vittoriana, fine
Ottocento) può avere influito. Ma allora con effetto opposto al fine
dell’eugenetica.
astolfo@antiit.eu
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