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La gelosa solitudine di Pavese
“Terre aride”, “spiaggia desolata”, Cesare Pavese scende dal treno, “tradotto”,
in manette, a Brancaleone Calabro il il 4 agosto del 1935 (ci rimarrà sette
mesi e mezzo, una calda estate e un brutto inverno), uno dei posti più remoti,
allora, della Calabria, nello sgomento. Ma è una prima impressione, per sottolineare
il lungo viaggio, l’entrata in un mondo altro. Che ha già temperato alle prime righe, dicendosi “felice del mare”, al maresciallo che lo prende in carico
dando “una grande umanità”. Subito il paese gli appare “quasi lieto”, “le prime
case avevano un volto quasi amico”, “cordiale” davanti al “mare tranquillo”. E ha
la visione che avrebbe dovuto essere il nucleo del racconto: “Una casa dai muri
in pietra grigia, con una scaletta esterna
che portava ad una loggetta laterale, aperta sul mare”, “un riquadro luminoso”,
“netto e intenso come il cielo di un carcerato”, “sul davanzale dei gerani scarlatti”, e sulla
scaletta “una certa ragazza”, la Concia.
L’idilio non si conclude – non si sviluppa – e il racconto resta della
routine di un confinato politico che si
nega, rifiuta ogni responsabilità, ogni impegno. E, al fondo, di un senso vago ma
ritornante, anche non di proposito, della vita come di una prigione, con e
senza pareti. E di una “scoperta del Sud” che, senza raggiungere l’intensità del
coetaneo, conterraneo e coevo Carlo Levi (del “Cristo si è fermato a Eboli”,
successivo di un quinquennio alla stesura dal “Carcere, ma pubblicato
tre anni prima, nel 1945 – pubblicato dallo stesso Pavese), sa rappresentare sia “il
profondo Sud” che lo spaesamento e la derelizione del confinato.
Concia l’ingegnere “l’aveva veduta girare in paese – la sola (le
donne non si mostrano, n.d.r.) – con un passo scattante e contenuto, quasi un
danza impertinente, levando sui fianchi il viso bruno e caprigno con una sicurezza ch’era un sorriso. Era una
serva, perché andava scalza e a volte portava acqua”. Il racconto dell’innamoramento di una ninfa
selvatica poi non quaglia – anzi si scioglie nel sordido, lei è proprio una
bestia, una capra. O Pavese ha voluto vivere (rivivere, far vivere) l’impossibilità
del mito, fuori dall’immaginazione poetica. Il suo ingegnere, l’ingegnere nel
quale s’impersona, anzi, fa succube di una donna materna, Elena, in carne,
lattea, che lo accudisce, anche a letto - senza trasporto o riconoscenza da parte sua, solo incertezza e fastidio, il materno è animale.
Resta il racconto, purtroppo ancora una volta in chiave
autobiografica, di uno stato semiallucinato della prigione dentro. Non della
vita come prigione, ma di una impossibilità, personale, frustrante, di viverla.
Un’impossibilità ribadita, con l’insistenza di un leitmotiv programmato. “Pareti
invisibili” gli precludono “ogni contatto umano” – “nessuno si fa casa di una
cella”. Il carcere? “Meglio restarci per sognare di uscirne, che uscire davvero”.
Un racconto del 1938, da leggere alla luce del tradimento da parte
della “signorina” alla cui leggerezza ritiene di dovere il confino, che lo ha
subito abbandonato, come presto scoprirà. Ma che diventa, nel contesto della
vita di Pavese, un’anticipazione dell’incapacità di vivere – dell’inadeguatezza,
oggi si dice. O dell’indattatibilità. Che viene solitamente letta come
impoliticità, incapacità di calarsi nel mondo delle passioni contemporanee, di
militare, di resistere. Ma questa è piuttosto – neanche risentita, o criticata –
la conseguenza di un disagio costitutivo, della personalità. Dietro la plurima intelligenza e l’energia
eccezionale che il poeta, scrittore, traduttore, critico e editore dispiegava. “I
miei racconti sono – in quanto riescono –“, annoterà poco dopo nel “Mestiere di
vivere”, “storie di un contemplatore che osserva accadere cose più grandi di
lui”.
Cesare Pavese, Il carcere,
Einaudi, pp. 144 € 10
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