La religione di Sciascia
Curiosa testimonianza, piena di
cose curiose ma non inventate, che si trascura nella critica e nella biografia
di Leonardo Sciascia. Pronta nel 1981, ma rifiutata da Linder, l’agente di
tutti gli editori, e da Elvira Sellerio, cui Scheiwiller l’aveva proposta, pubblicata
nel 1984, in vita dello scrittore, con una prefazione di Luraghi, nella collana
“Narratori” dello stesso Scheiwiller. Che l’ha voluta dotare di un postfazione
irritata, per “chi ama i libri di Leonardo Sciascia”, e da suo amico, quasi
editore e fervente ammiratore, “Hanno parlato male di Garibaldi”: quale il peccato?
L’autore la scrisse a sessant’anni,
trenta dopo aver preso l’incarico di Rettore della chiesa spagnola di Santa
Maria della Soledad a Palermo. Un sacerdote dunque, catapultato in un’isola di
cui non saseva nulla, in un incarico, dice, “surreale come gli orologi in
deliquio di Salvatore Dalì”. Un ex prete poiché il volumetto è dedicato alla
moglie e al figlio. Avendo scoperto in Italia, oltre che, come insiste,
“l’umanità” (“in ogni Spagnolo è in agguato un Torquemada, l’Italia è al
contrario il paese della vita, dell’umanità, dell’umanesimo”, la Spagna ha
prodotto domenicani e gesuiti, l’Italia Francesco d’Assisi), anche la libertà –
veniva dalla Spagna di Franco. Un prete che in origine si voleva poeta. Una
vocazione da cui parte al primo aneddoto del libro, un incontro a Milano con
Pablo Neruda, alla vigilia del golpe di Pinochet in Cile, e lo aiuta a
mobiliare il buen retiro che, benché
malato terminale ma ignaro, il poeta diplomatico si era comprato in Normandia. La
poesia porta all’incontro e all’amicizia con Sciascia. Lo scrittore viene
indirizzato al sacerdote spagnolo nel 1956, l’anno dopo il suo sbarco a
Palermo, da un addetto del consolato spagnolo, cui soleva ricorrere per
problemi di traduzione dal castigliano. Di professione ancora maestro di
scuola, Sciascia lavorava al libro che poi Scheiwiller finirà per non (poter)
pubblicare, la traduzione del poeta spagnolo Pedro Salinas - Sciascia tradurrà
anche componimenti del sacerdote-poeta spagnolo.
Un’amicizia malgrado tutto
riservata, benché sia stata a lungo intensa e quasi domestica. Álvarez García
non metterà mai Sciascia al corrente delle crisi vocazionale – sentirà
oscuramente di non “poterlo” fare. Ma importante per la biografia e l’anamnesi dello
scrittore. Specie nella decisione presa nel 1957 di lasciare l’impiego e la
famiglia e stabilirsi a Roma, in pensione con altri scrittori, Strati, Pedullà,
La Cava (col quale resterà in fecondo contatto), in via Castelfidardo alla stazione Termini, “vicino ai treni di ritorno”. Così giustificandosi con l’amico
prete: “Se non mi butto adesso nella mischia
non sfonderò mai”.
Un’immagine di Sciascia non
convenzionale. Partendo dal fatto, dice Álvarez García, che “quando scomparve da
me il prete l’amicizia si spense”. L’ex sacerdote si arrischia anche più in là
su una certa religiosità di Sciascia: “Il catechismo dell’infanzia gli è rimasto
attaccato al midollo delle ossa e nemmeno Voltaire è stato capace di estirparglielo”.
Un catechismo inculcato dalle zie – “sua madre e le sue zie erano donne pie,
tutte casa e chiesa” – “da bambino Sciascia crebbe in una sorta di gineceo”. Un
peso molto grande, arguisce Álvarez García, che influirà anche sull’amicizia: “Quando
scomparve da me il prete, l’amicizia si spense”. Ricordando lo storico Antonio
de Stefano, prete spretato, comunista, impegnato in molte lotte, morto con la
benedizione del cardinale Ruffini, Álvarez García si avventura a dire di Sciascia:
“Anche Leonardo soffre di una specie di «complesso di Edipo» spirituale che
travaglia e rende irrequieta la sua anima”. E - insieme con Consolo, assicura - se ne attende
il ritorno alla chiesa: “I preti dei suoi romanzi sono disegnati con un tale
trasporto che è difficile evitare il sospetto che essi costituiscano il tipo
umano che Sciascia vorrebbe essere”. Anche perché “lo «scialle nero» e la
«lumière» fusi insieme costituiscono il principale fascino dello scrittore”.
Uno scrittore che non ha un solo personaggio femminile.
Il che è vero, e curioso. Uno Sciascia
estremamente generoso, “che regala sempre”, specie con Álvarez García. E forse non misogino. Ma
ombroso, come si sa, e di rari sorrisi.
Una galleria anche di personaggi
che allora, anni 1960, facevano la Sicilia. Il cardinale Ruffini soprattutto –
uno che “chiamava galantuomini i capimafia e picciotti ardimentosi i suoi
sgherri”. Un ritratto inconsueto della moglie di Sciascia, insegnante anche lei.
L’antiquario Antonio Daneu, di una famiglia di antiquari che aveva come simbolo
un cane nero a sei zampe – che Enrico Mattei copierà. Il poeta e narratore
“senza fortuna” Aldo Camilleri. In molte pagine il poeta Lucio Piccolo –
“assiduo frequentatore di Casa Daneu era il barone Lucio Piccolo di Calanovella,
persona estremamente umile, che scriveva versi in segreto”. A Lucio Piccolo
Álvarez García spiega, quando già era in crisi con la vocazione sacerdotale, che Sciascia ha torto, i siciliani sono religiosi,
pieni di santuari e di devozioni: “Sciascia confonde religiosità con
cattolicesimo. Io credo che i siciliani non riusciranno mai a essere veri cattolici proprio perché sono troppo religiosi. Hanno
venerato come santi perfino i delinquenti! Pensi al culto che i palermitani
tributavano alle anime dei «decollati»”. Di Tomasi di Lampedusa, incontrato
qualche volta con Piccolo, poco loquace, “uomo a cui piaceva più ascoltare che
parlare”, ricorda che lamentava di Cervants che avesse scritto solo “Don
Chisciotte” – lui che resterà per un solo libro. C’è molto anche di Consolo,
amico personale di Álvarez García – che il libro dice scritto su richiesta e
stimolo dell’amico,.
Gonzalo Álvarez García, Le zie di Leonardo
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