martedì 4 maggio 2021

Letture - 457

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Classici –Sono, devono essere, essere stati, rivoluzionari? Si pone il quesito Gide nel “Journal”, gennaio 1936, partendo dall’uso di addomesticarli: “Sembra che il lavoro scolastico sia di addomesticare i classici; sempre temperati, corretti, addolciti, inoffensivi; le loro armi più affilate l’assuefazione li mussa. Non li si legge bene senza ridare loro dell’acuminato”.
 
Dante – Gide lo celebra d’improvviso nel “Journal” il 26 agosto 1938. Non ne parla prima, ne parla ora senza collegamenti con eventuali letture, anche occasionali, nel pieno della crisi che lo investì alla morte della moglie Madeleine il 17 aprile: “Dante è uno di quelli ai quali debbo di più (molto più che a Shakespeare, per esempio) e la cui voce mi ha più direttamente chiamato. L’ho letto molto nel miglior tempo della mia gioventù, lentamente, pazientemente, diligentemente; con altrettanto amore, quasi, e cura che il Vangelo”. 
 
Erasmo – La diagnosi retrospettiva sui resti ha rivelato che è morto di osteite luetica dell’osso dell’avambraccio. Contrata probabilmente in un rapporto mercenario.  
 
Eugenetica – Ha avuto, non proclamata, richiamo insistente fino a tutta la seconda guerra mondiale (e tuttora si praticherebbe, senza enfasi, in ambito scandinavo). In un tratto del “Journal”, in piena occupazione tedesca, il 12 gennaio 1941, Gide se lo dice: “Non hai tu stesso, quando ti occupavi di giardinaggio, capito che il solo mezzo di preservare, proteggere, salvaguardare il raffinato, il migliore, era di sopprimere il meno buono? Sai bene che questo non avviene senza un’apparenza di crudeltà, ma che questa crudeltà è prudenza…”. Una obiezione che si ripete in chiave di attualità: “Che parli di migliore? Il lavoro intrapreso da colui che si vuole il gran giardiniere d’Europa, questo lavoro non è tanto sovrumano quanto inumano. Senza dubbio, se lo portasse a compimento non resterebbe sulla terra né una voce per gemere né un orecchio per permettere ancora di ascoltarla; e più nessuno per sapere o per chiedersi se ciò che la sua forza sopprime non è della più grade qualità, infinitamente, che la sua forza stessa e ciò che essa pretende di apportarci”. Per concludere in termini di costi\benefici non di etica: “Il tuo sogno è grande, Hitler; ma perché riesca, costa troppo caro”. Non che è sbagliato – “e se fallisce, (perché è troppo sovrumano per riuscire), che ne resterà sula terra, ala fine, se non lutto e devastazione?”
 
Italiano – Lingua e storia, molto è opera di stranieri: molti repertori linguistici, e anche vocabolari di grande ampiezza, sono opera di filologi stranieri. Di tedeschi in particolare, e di svizzeri (tedeschi). Del tedesco Gerhard Rohlfs sono le prima trattazioni dei dialetti italiani, e di quelli grecanici in particolare. Rohlfs ha avviato lo studio dei dialetti con i tre volumi della “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti”, in tre volumi, 1949-1954, “Morfologia”, “Sintassi e formazione del parole”, “Fonetica”.
Le ricerche onomastiche sono state avviate anch’esse da G.Rohlfs, nel 1978, col “Dizioanrio onomastico e toponomastico della Calabria” – la prima ricerca italiana è di quindici anni dopo: Emidio De Felice, “I cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico”, peraltro con supporti minimi, insoddisfacenti.
Sono tedeschi, primo Ottocento, i primi studi e i recuperi dei canti popolari. August Kopisch, prussiano di Breslavia (1799-1853), scrittore e pittore, traduttore di Dante, “scopritore” della Grotta Azzurra a Capri, recuperò alcuni canti locali nella raccolta “Agrumi” (titolo italiano) del 1838 – Alberto Maria Cirese si è dovuto rifare a questa raccolta, nel 1966, per esumare alcuni canti folk. Prima di Kopisch aveva raccolto canti popolari italiani Salomon Bartholdy, un diplomatico prussiano noto soprattutto come grecista, e Wilhelm Müller, il liederista di Schubert – la raccolta di Müller, morto anche lui di 31 anni come Schubert, fu ripresa e completata nel 1829 da Oskar Ludwig Bernhard Wolff, sotto il titolo “Egeria” – una raccolta a cui Kopisch espressamente si rifà.
Lo zurighese Johann Jakob Bodmer (1698-1783) scoprì” autonomamente Dante nel primo Settecento e lo introdusse nella lingua tedesca. Carl Witte, il filologo tedesco italianato, ha fodnato la prima Società Dantesca.
La prima, e unica, “Storia delle Repubbliche italiane dei secoli di mezzo” – del periodo storico di maggiore spessore sociale, politico, economico, artistico dell’Italia - è dell’economista e storico svizzero Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde de. Pubblicata a partire dai suoi trent’anni, nel 1807.
Il Rinascimento è stato coniato da Michelet. Ed è stato imposto da Michelet e dallo storico svizzero Jacob Burckhardt.
 
Italia è per Gide noblesse. Ci riflette il 5 agosto 1937 nel suo “Diario” a Sorrento, ove vede celebrato “lo sforzo dell’uomo e il trionfo dello spirito” – “nessuna mollezza qui accompagna la gioia di vivere”. La riflessione è breve ma decisa. “Su nessuna altra terra, senza dubbio, il matrimonio è più felice della vegetazione e di un’architettura audace… Noblesse, questa parola mi perseguita, in Italia – dove la più sensale carezza raggiunge la spiritualità”. E subito poi: “Non ho mai saputo dire ancora né tutto ciò che devo all’Italia né quanto ero e resto innamorato di lei”.
 
Metastasio – Fu beneficiato dalle Marianne. Morirà a 84 anni di una polmonite presa nel rigido del 1782 per essersi affacciato a vedere il nuovo re Giuseppe II, erede di Maria Teresa, dal balcone degli appartamenti del cerimoniere di corte, della figlia del cerimoniere, Marianna Martinez.
La prima Marianna la soprano Marianna Benti Bulgarelli, celebrata come la Romanina, per essere di Roma, per la quale aveva composto “Didone abbandonata”, morì presto per lasciargli ogni bene. Marianna Pignatelli Althann, contessa, lo portò a Vienna, lo protesse per venticinque anni, e gli lasciò i suoi beni. Invecchiò con Marianna Martinez, che Stendhal stordito fa allieva della Romanina a Roma. Mentre la storia vera è migliore: Metastasio vecchio, confortato da Marianna, sorella del suo segretario, della di lei educazione paterno si occupò facendole dare lezioni di canto da Haydn, il figlio del barocciaio, che abitava la soffitta sopra il loro alloggio con un cembalo tarlato, al quale insegnò in cambio l’italiano, e la melodia.  
 
Proust – Scrive e pubblica – s’industria di pubblicare, con solleciti, raccomandazioni, visite - i suoi salotti mentre infuria la Grande Guerra, la più orribile carneficina, la fabbrica con milioni di morti, e di distruzioni, miserie, epidemie, da ultimo, finita la guerra, la febbre “spagnola”. Un “a coté”, si direbbe, disturbante. La sensibilità dell’insensibile. O dell’ombelico prominente: un anestetico, si direbbe, imbattibile.
 
Wilde – È a Gide, a Algeri, che dice la frase famosa, rispondendo a una critica (“molto impertinente” annota Gide nel suo “Journal” qualche anno dopo) del suo teatro: “Ho messo tutto il mio genio nella mia vita: non ho messo che il mio talent nelle mie opere”.
Gide si chiede però: “Sarei curioso di sapere se ha mai detto questa frase ad altri che a me”.

letterautore@antiit.eu 

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