Letture - 457
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Classici
–Sono, devono essere, essere stati, rivoluzionari?
Si pone il quesito Gide nel “Journal”, gennaio 1936, partendo dall’uso di
addomesticarli: “Sembra che il lavoro scolastico sia di addomesticare i
classici; sempre temperati, corretti, addolciti, inoffensivi; le loro armi più affilate
l’assuefazione li mussa. Non li si legge bene
senza ridare loro dell’acuminato”.
Dante
– Gide lo celebra d’improvviso nel “Journal” il 26
agosto 1938. Non ne parla prima, ne parla ora senza collegamenti con eventuali
letture, anche occasionali, nel pieno della crisi che lo investì alla morte della
moglie Madeleine il 17 aprile: “Dante è uno di quelli ai quali debbo di più
(molto più che a Shakespeare, per esempio) e la cui voce mi ha più direttamente
chiamato. L’ho letto molto nel miglior tempo della mia gioventù, lentamente,
pazientemente, diligentemente; con altrettanto amore, quasi, e cura che il
Vangelo”.
Erasmo – La diagnosi retrospettiva sui resti ha
rivelato che è morto di osteite luetica dell’osso dell’avambraccio. Contrata
probabilmente in un rapporto mercenario.
Eugenetica – Ha avuto, non proclamata, richiamo
insistente fino a tutta la seconda guerra mondiale (e tuttora si praticherebbe,
senza enfasi, in ambito scandinavo). In un tratto del “Journal”, in piena
occupazione tedesca, il 12 gennaio 1941, Gide se lo dice: “Non hai tu stesso, quando ti occupavi di giardinaggio, capito
che il solo mezzo di preservare, proteggere, salvaguardare il raffinato, il
migliore, era di sopprimere il meno buono? Sai bene che questo non avviene senza
un’apparenza di crudeltà, ma che questa crudeltà è prudenza…”. Una obiezione
che si ripete in chiave di attualità: “Che parli di migliore? Il lavoro intrapreso da colui che si vuole il gran giardiniere
d’Europa, questo lavoro non è tanto sovrumano quanto inumano. Senza dubbio, se
lo portasse a compimento non resterebbe sulla terra né una voce per gemere né un
orecchio per permettere ancora di ascoltarla; e più nessuno per sapere o per chiedersi
se ciò che la sua forza sopprime non è della più grade qualità, infinitamente,
che la sua forza stessa e ciò che essa pretende di apportarci”. Per concludere
in termini di costi\benefici non di etica: “Il tuo sogno è grande, Hitler; ma
perché riesca, costa troppo caro”. Non che è sbagliato – “e se fallisce, (perché
è troppo sovrumano per riuscire), che ne resterà sula terra, ala fine, se non
lutto e devastazione?”
Italiano
– Lingua e storia, molto è opera di stranieri: molti
repertori linguistici, e anche vocabolari di grande ampiezza, sono opera di
filologi stranieri. Di tedeschi in particolare, e di svizzeri (tedeschi). Del
tedesco Gerhard Rohlfs sono le prima trattazioni dei dialetti italiani, e di quelli
grecanici in particolare. Rohlfs ha avviato lo studio dei dialetti con i tre
volumi della “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti”, in
tre volumi, 1949-1954, “Morfologia”, “Sintassi e formazione del parole”, “Fonetica”.
Le ricerche onomastiche sono state avviate anch’esse
da G.Rohlfs, nel 1978, col “Dizioanrio onomastico e toponomastico della
Calabria” – la prima ricerca italiana è di quindici anni dopo: Emidio De
Felice, “I cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico”, peraltro con
supporti minimi, insoddisfacenti.
Sono tedeschi, primo Ottocento, i primi studi e i
recuperi dei canti popolari. August Kopisch, prussiano di Breslavia
(1799-1853), scrittore e pittore, traduttore di Dante, “scopritore” della
Grotta Azzurra a Capri, recuperò alcuni canti locali nella raccolta “Agrumi”
(titolo italiano) del 1838 – Alberto Maria Cirese si è dovuto rifare a questa
raccolta, nel 1966, per esumare alcuni canti folk. Prima di Kopisch aveva raccolto
canti popolari italiani Salomon Bartholdy, un diplomatico prussiano noto
soprattutto come grecista, e Wilhelm Müller, il liederista di Schubert – la raccolta
di Müller, morto anche lui di 31 anni come Schubert, fu ripresa e completata
nel 1829 da Oskar Ludwig Bernhard Wolff, sotto il titolo “Egeria” – una
raccolta a cui Kopisch espressamente si rifà.
Lo zurighese Johann Jakob Bodmer (1698-1783) scoprì”
autonomamente Dante nel primo Settecento e lo introdusse nella lingua tedesca. Carl
Witte, il filologo tedesco italianato, ha fodnato la prima Società Dantesca.
La prima, e unica, “Storia delle Repubbliche
italiane dei secoli di mezzo” – del periodo storico di maggiore spessore
sociale, politico, economico, artistico dell’Italia - è dell’economista e
storico svizzero Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde de. Pubblicata a
partire dai suoi trent’anni, nel 1807.
Il Rinascimento è stato coniato da Michelet. Ed è
stato imposto da Michelet e dallo storico svizzero Jacob Burckhardt.
Italia è per Gide noblesse. Ci riflette il 5 agosto 1937 nel suo “Diario” a Sorrento,
ove vede celebrato “lo sforzo dell’uomo e il trionfo dello spirito” – “nessuna
mollezza qui accompagna la gioia di vivere”. La riflessione è breve ma decisa.
“Su nessuna altra terra, senza dubbio, il matrimonio è più felice della vegetazione
e di un’architettura audace… Noblesse,
questa parola mi perseguita, in Italia – dove la più sensale carezza raggiunge la
spiritualità”. E subito poi: “Non ho mai saputo dire ancora né tutto ciò che
devo all’Italia né quanto ero e resto innamorato di lei”.
Metastasio – Fu beneficiato dalle Marianne. Morirà a 84 anni di una polmonite presa
nel rigido del 1782 per essersi affacciato a vedere il nuovo re Giuseppe II,
erede di Maria Teresa, dal balcone degli appartamenti del cerimoniere di corte,
della figlia del cerimoniere, Marianna Martinez.
La prima Marianna la soprano Marianna
Benti Bulgarelli, celebrata come la Romanina, per essere di Roma, per la quale aveva composto “Didone abbandonata”, morì presto per lasciargli ogni bene. Marianna Pignatelli
Althann, contessa, lo portò a Vienna, lo protesse per venticinque anni, e gli
lasciò i suoi beni. Invecchiò con Marianna Martinez, che Stendhal stordito fa
allieva della Romanina a Roma. Mentre la storia vera è migliore: Metastasio
vecchio, confortato da Marianna, sorella del suo segretario, della di lei educazione
paterno si occupò facendole dare lezioni di canto da Haydn, il figlio del
barocciaio, che abitava la soffitta sopra il loro alloggio con un cembalo
tarlato, al quale insegnò in cambio l’italiano, e la melodia.
Proust – Scrive e pubblica – s’industria di pubblicare, con solleciti, raccomandazioni,
visite - i suoi salotti mentre infuria la Grande Guerra, la più orribile
carneficina, la fabbrica con milioni di morti, e di distruzioni, miserie, epidemie,
da ultimo, finita la guerra, la febbre “spagnola”. Un “a coté”, si direbbe, disturbante.
La sensibilità dell’insensibile. O dell’ombelico prominente: un anestetico, si
direbbe, imbattibile.
Wilde – È a Gide, a Algeri, che dice la frase famosa, rispondendo a una
critica (“molto impertinente” annota Gide nel suo “Journal” qualche anno dopo)
del suo teatro: “Ho messo tutto il mio genio nella mia vita: non ho messo che
il mio talent nelle mie opere”.
Gide si chiede però: “Sarei curioso di sapere se ha
mai detto questa frase ad altri che a me”.
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