Pavese era Leopardi
È tutto, particolareggiato e
preciso, nell’autoritratto spedito a Fernanda Pivano – da Torino a Torino – il
25 ottobre 1940, con un titolo, “Analisi di P.” – dopo aver ponzato “Analisi
amorosa di P.” e “Analisi vergognosa di P.”. Scherzoso, ma non di fatto. Troppo
lungo, quattro pagine piene a stampa, per essere riprodotto, ma senza sconti
per se stesso: un raté, con
l’ambizione “di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfondibili e
assoluti”. Uno che “recita”, anzi recita “terribilmente sul serio”. Un solitario,
incapace di amore (“si dimentica d’innamorare di sé la donna”), sempre perché “recita sul serio”, finendo per
“trasformare in vamp ragazze che non
se lo sognavano neppure”, ma col “desiderio feroce di una casa e di una vita
che non avrà mai”, con una “forte fantasia”, per cui gli basta rappresentarsi
se stesso in un’immagine dolorosa per risentirne fisicamente le torture”. Lungamente tentato da “una stoica
atarassia”, con “la rinuncia assoluta a ogni legame umano, se non quello,
astratto, di scrivere”, ma anche questo non gli riuscì, e “avvenne il
franamento”.
Einaudi riedita l’edizione del 1990
con un prefazione di Starnone, ma completa della vecchia nota introduttiva di
Cesare Segre, corposa. Una sapida rilettura del testo di Marziano
Guglielminetti. E la nota al testo, di Laura Nay, che rende conto di ogni
omissione, anche di virgole, tra la prima edizione e la riedizione.
Il diario è quello che era,
passata l’emozione del suicidio – della pubblicazione come a corredo
(spiegazione) del suicidio. Uno zibaldone nella migliore tradizione, di
Leopardi, di Goethe. Di un uomo non solitario, anzi socievole, benché incapace
di quella relazione duratura con una donna che fu il tormento della sua vita –
anche questo molto leopardiano (così come la passione filologica, una full immersion, un’apnea senza termine).
Un diario di moralità (riflessioni), con rare note autobiografiche, che si
rileggono a distanza sempre con interesse. Con una padronanza eccezionale,
oltre che dei classici, di letterature comparate, americana, tedesca, francese,
eccezionale per gli anni suoi, nelle lettere italiane – più tardo
Settecento-primo Ottocento.
Ma uno zibaldone quasi
monotematico, sull’amore. Uno scoglio, una tragedia al modo di Nietzsche.
Incapace come Nietzsche di allacciare quella relazione femminile stabile cui
pure ambiva, ciò che chiama nel diario “impotenza”. E come Paul Rée a distanza
dal rifiuto di Lou Andreas Salomè, lui dall’abbandono di Tina Pizzardo,
suicida.
Molta teoria dell’amore vuole che
lo stato erotico, come lo chiama Lou Salomé, sia “una benedizione”, sia
esso felice o infelice, poiché elettrizza, incrementa, moltiplica, vivacizza.
Per Pavese non sembra il caso, poiché se ne hanno tracce solo di fatica,
incapacità, cattiveria. Nella sua propria percezione. Ma forse lo ha tenuto
vivo, poiché, come lui stesso constata verso la fine, in pochi anni ha creato
un’opera voluminosa, oltre che di qualità.
Costeggia, distratto?, la fede,
quando annota “lo sgorgo di divinità”, il 29 gennaio 1944.Un evento che, forse,
lo porterà alla fede – “è questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele: la
rinuncia a tutto”. Lo “sgorgo di divinità” è nella preghiera: “Ci si umilia nel
chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si
dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo
di divinità”. Il pensiero di Dio ritorna a inizio 1945, commentando l’anno
finito: “Annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio”. E “potrebbe essere
la più importante annata che hai vissuto”, di “lacerazioni notevoli”, “se
perseveri in Dio, certo”.
Molte letture di elisabettiani.
Finche tardi, a fine 1949, un 2 dicembre, non scopre di essere stato
influenzato (“plasmato”) da Lawrence, da “The Sun” e da “The woman who rode
away”. Ha letto anche, il 26 novembre,
Primo Levi, che evidentemente non ha voluto pubblicare – “Se questo è un uomo”
era uscito un anno e mezzo prima da De Silva – gli piace il “conservavamo i
ricordi della nostra vita anteriore”.
Con una verosimile autoanalisi di
“Lavorare stanca”: “La nostra poesia vuole eliminare sempre più gli oggetti.
Tende a imporsi come oggetto essa stessa, come sostanza di parole… è un’onomatopeica universale”. E “anche il mio
libro – Lavorare stanca - ha oscuramente
fatto questo. Cercava l’oggetto scarnendo la parola”. E a commento del 1945,
invece: “Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare.
Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti
complimentano, ti ballano intorno. Ebbene?”
Il problema è la viltà: “Non hai
mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per
qualcuno?” Apre il 1950, prima dell’innamoramento con Connie, ancora con l’idea
del suicidio. A freddo. In una Roma che sempre lo tenta. Continua
rimproverandosi “la passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio,
per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi”, come “segno di
timidezza, di fuga davanti ai doveri e gli impegni del mondo umano”.
La riedizione Einaudi è robusta,
con molto da leggere. Oltre Starnone (?) e Segre, Guglielminetti, e la
corposissima nota filologica di Laura Nay, una dozzina di “pensieri
cassati”. Un’appendice biografica e critica, con saggi anche recenti, Vattimo,
Mazzacurati, Fortini postumo. E un’ottantina di pagine di succulente note. Per
quanto con la scomodità di tenere il libro aperto su due pagine, e di correre
avanti e indietro. Ma senza novità, né nel diario né nelle note: gli asterischi,
ora nominativi, sono senza sorprese.
Gli asterischi della prima
edizione, quella curata da Natalia Ginzburg e Italo Calvino, erano promettenti.
Ma il riscontro con l’edizione non purgata del 1990 li riduce bizzarramente a
cosa di sacrestia, pruriginosa ma casta. Perlomeno nel comune senso del pudore
contemporaneo, che nessun organo esclude dal linguaggio corrente, anche
scritto. Certo, pensare Ginzburg e Calvino impegnati a eliminare, per conto del
grande editore Einaudi, “parolacce” e scatologie, dopo la morte drammatica
dell’autore, e in presenza di tanto testo, è una curiosità.
La nuova edizione Bur,
post-diritti, fa a meno dell’apparato critico, e include invece il cosiddetto
“Taccuino Segreto”, gli appunti sparsi fuori dal diario, ripescati trent’anni
fa da Lorenzo Mondo, con la testimonianza dello stesso Mondo. Espressione della
poca presa della politica su Pavese, al di là delle scelte fondamentali. Fino
allo smarrimento nel 1943 su quale via prendere – l’insofferenza per una
decisione da prendere – tra la Resistenza e Salò.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, pp.
CVIII + 554 € 16
Bur, pp.632 € 12
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