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Pavese fuori dal mito
Riedizioni ricche, del Pavese
più pacificato, quasi scherzoso, allo scadere del copyright. L’editore per
eccellenza di Pavese, la casa che lui stesso ha per larga parte creato, raddoppia
lo spessore della sua edizione 2014, con introduzione di Nicola Gardini in
aggiunta a quella di Sergio Givone, e con antologia critica, note, vita e
opere. Adelphi, nuovo arrivato, assortisce l’opera con un’introduzione
frizzante e informata di Giulio Guidorizzi. E con una conversazione tra Carlo
Ginzburg e Giulia Boringhieri. Lo storico è figlio di Natalia e Leone Ginzburg,
la compagna di lavoro più stretta di Pavese alla Einaudi (e quella che ne
curerà a lungo le opere dopo la morte) e l’amico forse più intimo, sicuramente
più brillante, di Pavese (di lui si ricorda nelle biografie che, benché minore
di un anno dello scrittore, ma già addentro all’università, gli trovò in un paio di giorni un
relatore per la tesi di laurea su Walt Whitman, che l’anglista con cui Pavese
aveva lavorato, Federico Olivero, non voleva presentare).
L’intervista è poco informativa,
e quasi svogliata. Come se l’allora undicenne storico fosse già in polemica
generazionale con la madre Natalia (il padre, Leone, era morto ai primi del 1944
a Regina Coeli a Roma, per le torture subite da parte della Gestapo). O forse
impacciata: forse lo storico non ha ricordi precisi. Ricorda però il silenzio:
lo sconcerto, e la tristezza. Pavese si continua a prendere dalla fine, dal
suicidio – l’editoria non trova probabilmente altri temi promozionali.
I “Dialoghi”, scritti a Roma tra
fine 1944 e inizio 1945, a guerra finita, sono il libro che Pavese sentiva più
suo, e si portò dietro la notte del suicidio. Accolto con “elusiva diffidenza”,
eufemizza l’editore Adelphi: “Si stenta oggi a crederlo, ma all’epoca in Italia
il mito godeva di pessima fama” - godeva si dice per dire. Ma non è tanto il
mito che muove Pavese quanto l’allegria, lo scherzo, la disinvoltura. Per una
volta leggero, nella lettura che su questo sito ne è stata fatta di recente:
http://www.antiit.com/2019/04/il-mito-dei-miti.html
E più per riuscirci immerso nella
cultura, da lui ferocemente acquisita e vissuta. Un “capriccio serissimo”, come lo dice Givone nella
presentazione. Ma rilassato, ironico – Saffo è “lesbica di
Lesbo”, la “dea vergine” Artemide ha “carattere non dolce”. Un capriccio non di un creatore di miti: Pavese,
appassionato di antropologia, sapeva che i miti non si creano.
Non c’è scrittore del Novecento
più colto, dell’antico e del moderno (contemporaneo) di Pavese. È questo un
tratto che la liberazione del copyright, e quindi inevitabilmente degli studi,
dovrà approfondire. Ma qui, in quest’opera, è la vena irriverente che emerge di
Pavese, come nelle lettere e nel “Mestiere di vivere” non espurgato (lo è stato
per molti anni a opera purtroppo di Natalia Ginzburg).
Un Pavese fuori dal mito Pavese –
il disadattato suicida. Sì, si parla di destino, e cose del genere, ma come se ne parlava in antico, in conversazione. Molto c’è anche, in quest’opera apparentemente
stravagante, dell’anno trascorso da Pavese a Brancaleone in Calabria, al confino
politico. Notte e giorno a fronte del mare – Luecotea è la “dea bianca”, in antico
identificata con Ino, dea marina, bianca come la spuma sul mare? Con immagini di satiri
e ninfe, benché “caprine” - o perché “caprine” nel senso che in antico si
voleva, di esseri voluttuosi?
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Adelphi, pp. 226 €
18
Einaudi, pp. XIV + 224 € 12
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