La riflessione diaristica meno
censurata e più vivace di Pavese, autore diaristico per eccellenza, tutto ripiegato
su se stesso, anche più ricca del “Mestiere di vivere”. La solitudine, fino al
suicidio, è tema costante. O il senso di prigionia anche senza pareti – il tema del
racconto del confino, “Il carcere”. E la lingua poetica. Col “piemontesismo” –
senza mai alcun riferimento a Gozzano o altri piemontesi “tipici” (se non “il
buon Salgari” appaiato a Melville quale scrittore di avventure). L’uso del
dialetto, comunque, non è realismo, è letteratura: “Io quando torinesizzo sono
più letterato che mai”. Il suo lettore può testimoniarlo, dalla tesi su Walt
Whitman in poi, a 21 anni, “Interpretazione della poesia di Walt Whitman”, e
anche nelle poesie e i racconti adolescenziali. Senza contare, concorda con
Libero Novara, “Bero” o “Berin”, che il Piemonte non ha canzonette, canta
stornelli romaneschi o fiorentini.
L’altro tema è l’amore. Inafferrabile.
Della donna inafferrabile – perché idealizzata, compagna “non strumento
occasionale” (e “non ancora sposa”), non
in senso politico. Nelle personificazioni note, E., collega d’insegnamento, “la
signorina” della disgrazia politica (Tina Pizzardo), Fernanda Pivano, se
qualcosa ci fu, Bianca Garufi, Constance e Doris Dowling, e altre frequentazioni ancora
meno riuscite – un’inettitudine che lo accomuna a Nietzsche, pure autore
all’apparenza a lui alieno, benché letto e riletto. Una inettitudine che affiora
anche nelle lettere più professionali, una sorta di paranoia. Indotta - “Il
mestiere di vivere” è già chiaro, benché censurato - dal rapporto
incredibilmente ingeneroso e anzi ostile, a leggere lui, con Tina Pizzardo, per
“salvare” la quale era andato in carcere e al confino, nel mentre che lei si
“accasava” altrove – in prigione, scrive e ripete alla sorella Maria, con la
quale lamenta ripetutamente il silenzio della “signorina”, solo “per la
leggerezza di qualche conoscente”.
Non c’è ponte, non c’è dialogo,
fuori dalle amicizie di gioventù. Legittima in una corrispondenza “il
sacrosanto misoginismo di ogni piemontese”. Nel “Mestiere di vivere” si dice
anche: “Misogino eri e misogino resti”. Ma non lo, poiché privilegia la
compagnia femminile, amorosa e amichevole. Femminile anzi lui stesso, così se
lo dice nel “Mestiere di vivere”: “Sei una donna, e come donna sei caparbio”.
Uno dei pochi autori del Novecento che con la parte femminile convivono, e non
per parità di genere o altri proponimenti – non più tormentosi che con la parte
maschile. Misantropo piuttosto - la creazione propriamente amorosa, la prole,
“è la fine di ogni autonomia da parte del creatore”. Senza una causa visibile,
come prigioniero di se stesso, anche nelle effusioni, che non si risparmia. Per
un fondo di disperazione che non sembra peraltro coltivato, anche se non se ne
vedono le cause, non sono apparenti o storiche. E che anzi, il più spesso, gli
dà fastidio, se ne sente limitato.
Considerazioni derisorie sono
ricorrenti anche in dialogo, nella corrispondenza con gli amici, oltre che nel
diario. “Parliamo delle donne con una volgarità impressionante, e questo è il
loro bello”. Anche nei momenti in cui è sorridente, ironico, comico, beffardo –
che ricorrono paradossalmente soprattutto nelle lettere dal confino da
Brancaleone (dove invece è ricordato “triste, solitario y final”, ma forse è
ricostruito, in testimonianze rare e tarde, col dover essere del dopoguerra). E
quando è contento, come appunto a Brancaleone, combattivo, reattivo, anche nella
censurata questione della “signorina” per la quale si ritiene condannato e che
di lui non ne vuol sapere, si autoanalizza vivacemente - “questa allegrezza che
mi schiarisce la pagina”, scrive ad Augusto Monti, “il professore”, “lei avrà
già capito che nasce dall’enormità dell’afflizione”.
Ovunque l’infelicità. E il
fastidio della politica. Di quella professionale, esibita, e delle ortodossie
di partito. Il “gruppo dell’«Unità»” dice a Onofri “squalificato e malvisto” -
il gruppo “torinese” dell’“Unità”. Tiene testa a Mario Alicata, il depositario
del Pci per l’ortodossia letteraria, che lo vuole acculare al realismo – anche
se di Verga tesse un grande elogio con un corrispondente americano, raccomandandone
la traduzione. Ma la politica in genere lo infastidisce. In lettere fluviali a Pinelli,
non ancora ventenne ha inventato un “Carlo Emmenthal”, “contaminazione” di
“Carlo” Marx e Immanuel Kant, o delle astrusità. Nel 1930 sollecita da
Prezzolini a New York, “a nome di Sua Eccellenza Arturo Farinelli”,
informazioni su un incarico alla Columbia University. “Mai occupato di cose
politiche”, pretende nel 1935, con la prigione e il confino. Alla rivista
“Cultura”, si difende da Regina Coeli, ha invitato a collaborare “parecchi
camerati”. Interessato a tutto, insisterà, “eccetto, ab aeterno, la letteratura
politica”.
Molte naturalmente le curiosità.
Calvino è “scoiattolo della penna”. “Paesi tuoi”, allora reputato il suo
racconto migliore, spiega stimolato dal “Postino” di Cain. Il secondo libro di
Moravia (“Le ambizioni sbagliate”) difende dal giudizio (“brutto”) di Luisa
Monti, figlia di Augusto, moglie dell’amico di sempre Mario Sturani, in questi
termini: “È un libro scritto con i piedi, sbagliato nella psicologia,
ambientato antipaticissimamente, ma spiritoso, tragico, avvincente, fenomenale:
un romazo d’appendice di gran razza. È meglio del cinema”. Omero sempre, ma “il
mare colore del vino” no, d’accordo con Rita Calzecchi Onesti, traduttrice che
felicita molto: “Sono d’accordo per il mare cupo.
Via il vino”.
Lo “stile epistolare”, scriverà
Domenico Starnone delle sue letture pavesiane, introducendo la riedizione de “Il
mestiere di vivere” Einaudi, trascrizione 1990, “mi piacque molto: pensai che
avrebbe dovuto scrivere a quel modo anche quando vestiva l’abito del
narratore”. Ma è la pubblicazione, curiosamente, che nessuno riedita, nella fiera
post-copyright.
Scrive anche in inglese, lettere anche lunghe, benché bocciato al concorso per insegnarlo.
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