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Pechino sbarca nel Golfo
Gli Stati Uniti si ritirano dal Medio Oriente,
la Cina prova, con cautela, a prenderne il posto. Su basi economiche (petrolio
e sistema dei pagamenti) e non politiche, tanto meno militari. Ma con
decisione, come è d’uso a Pechino: ogni scelta, dopo ponderazione, viene
preparata e perseguita con ampia mobilitazione e determinazione.
Dalla “acquiescenza” con Washington nelle
guerre di Bush jr. in Afghanistan e Iraq,
Pechino è passata vent’anni dopo a un “patto” con l’Iran suscettibile, si fa
sapere, di sviluppi militari.
Nel caso, la Cina riesce a tenere i piedi in
due staffe, non abbandonando la relazione economica stretta avviata da un
dodicennio con l’Arabia Saudita, da quando è il primo importatore di greggio
del reame, prima degli Stati Uniti. Dopo la mancata protezione americana nell’attacco
dei droni iraniani (yemeniti ma iraniani) del settembre 2019 che portò a
dimezzare la produzione di petrolio, l’uomo forte di Riad, Mohammed bin Salman,
è passato deciso con Pechino sulle questioni aperte dagli Stati Uniti, degli Uiguri
del Sinkinag e di Hong Kong.
È presto per valutare l’esito di questa iniziativa
cinese. Gli accordi col regime degli ayatollah
sono sempre incerti – non c’è a Teheran un sistema statale o di potere
che garantisca continuità, ma gruppi di interessi in contrasto. Iran e Arabia Saudita
si pongono inoltre difensori dell’islam, e la politica restrittiva di Pechino
contro le minoranze islamiche potrebbe presto confliggere.
È certo invece il disimpegno americano. Il “retrenchment”
militare è parte di un più generale disinteresse americano (Libia, Siria, e il
ritiro dall’Afghanistan dopo l’abbandono sostanziale dell’Iraq). Biden mostra di
voler sfidare Pechino su ogni fronte, ma non abbandona la politica di disimpegno
dal Medio Oriente avviata dalle presidenze Obama, di cui era vice.
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