“E adesso vi racconto come
avvenne che due americani”, Gertrude Stein e suo fratello maggiore, a
Parigi, “si trovarono al cuore di un
movimento artistico di cui il mondo all’epoca non sapeva nulla”. Celebrata autocelebrazione
di Miss Stein, sotto il nome della sua compagna Alice, quale scopritrice e
animatrice dell’arte contemporanea a Parigi nei due primi decenni del
Novecento: Picasso soprattutto, ma perfino Cézanne, e anche Matisse, e tutti
gli altri, attorno alla casa-studio di miss Stein a rue Fleurus. Indisponente.
Regge un po’ con il brio, con la “frasetta” che è il trademark di Gertrude
Stein scrittrice, nella traduzione di Alessandra Sarchi anche brilllante,
andante con moto, ma è come ogni selfie,
per quanto il genere vada oggi di moda: inutile. Cioè non proprio inutile, può
essere un buon articolo di giornale, ma per trecento pagine?
Si continua a riproporre questa
“Autobiografia” come un capolavoro del Novecento - a partire da Pavese, purtroppo. Forse perché Stein e Toklas
sono icone lgbtq. Ma è pur sempre un vecchio racconto di bohème, con tutti gli artisti, più o meno (manca Modigliani) su
piazza a Parigi. Con un po’ di Apollinaire, e di Hemingway, stiracchiato. Per
non dire nulla. Sul tipo del racconto di bohème:
qui i personaggi e gli ambienti sono racés,
anche gli artisti, anche le loro mogli, e si fanno un pregio di esserlo –
pregiano molto i nobili, le duchesse, le contesse.
La celebrata “frase” su cui Stein
orchestra la sua scrittura, qui lungamente descritta, è efficace. Non nuova - se
non nella forma, breve: è di Defoe, che anche lui sembra che racconti correndo,
o corra narrando. Di Defoe, allora, si direbbe al quadrato, poiché Stein si
scrive sotto il nome di Alice come Defoe sotto quello di Robinson. Ma Robinson
non ci mette Defoe a ogni paio di righe.
Con un penchant per il pettegolezzo. Non disdicevole: un gradevole small talk, non fosse prolisso.
Di fatto è un repertorio di tutti i nomi, grandi e piccoli, della
Parigi artistica a Parigi negli anni 1900-1910, stanziale e di passaggio. Col
tono indigesto di “Picasso, sono io”. E con molto name dropping a ogni riga – non basta essere curiosi. Un repertorio anche di tutti gli
americani a Parigi, prodromo dell’efflorescenza dopo la Grande Guerra:
Hemingway (con più punte di veleno – ma lo Hemingway, peraltro soprattutto
bello, che pratica la boxe ed è molto fragile, oltre che infognato nella
“carriera”, non è male), Fitzgerald, Sherwood Anderson. Mc Almond et al.. Eccetto che (oltre che di
Modigliani) di Nathalie Barney, americana anche lei, che riceveva rue Jacob,
non scriveva così bene come miss Stein, ma era bella e molto più disinvolta,
celebrata da Gourmont, ed ebbe relazioni con tutte le belle donne di Parigi,
anche non americane: viene menzionata, una o due volte, per la sua amica
duchessa di Clermont-Tonnerre. E di Margherite, allora Chapin poi Caetani, che comprava giovani pittori più è meglio dei fratelli Stein, e avrebbe coronato Valery, Larbaud, Fargue, Saint-John Perse - prima di promuovere a Roma, alle Botteghe Oscure, mezza letteratura italiana postbellica. E a chi le dice che la apprezza come Picasso e
André Gide, risponde, va bene, ma perché Gide? Il tono è questo.
Sarchi ha problemi ad alleggerire
il peso di alcuni “negri” dell’autobiografata – da tifosa del generale Grant e
non di Lincoln. Specialmente sgradevole nel caso di Paul Robeson, al quale rimprovera
gli spiritual: “Non ti appartengono,
non più di qualsiasi altra cosa, perché li canti? Lui non rispose”. Nella
convinzione che “i negri non stavano soffrendo di persecuzione ma di non essere
niente” – “l’africano non è primitivo, ha una cultura antica ma molto ristretta
e immobile”.
Una foto celebre ritrae Gertrude Stein con
la vera Alice in abito e attitudine monacali, quando si tagliarono i capelli
perché la duchessa di Clermont-Tonnerre se li era tagliati. Si direbbe la
papessa Gertrude.
Nell’edizione originale corrente,
Penguin Classics, con fastidiosi ripetuti Pissaro e Gaugin: sono solo errori di
composizione?
Gertrude Stein, Autobiografia di Alice B. Toklas,
Marsilio, pp. 312 € 18
Lindau, pp. 360 € 26
Si continua a riproporre questa “Autobiografia” come un capolavoro del Novecento - a partire da Pavese, purtroppo. Forse perché Stein e Toklas sono icone lgbtq. Ma è pur sempre un vecchio racconto di bohème, con tutti gli artisti, più o meno (manca Modigliani) su piazza a Parigi. Con un po’ di Apollinaire, e di Hemingway, stiracchiato. Per non dire nulla. Sul tipo del racconto di bohème: qui i personaggi e gli ambienti sono racés, anche gli artisti, anche le loro mogli, e si fanno un pregio di esserlo – pregiano molto i nobili, le duchesse, le contesse.
La celebrata “frase” su cui Stein orchestra la sua scrittura, qui lungamente descritta, è efficace. Non nuova - se non nella forma, breve: è di Defoe, che anche lui sembra che racconti correndo, o corra narrando. Di Defoe, allora, si direbbe al quadrato, poiché Stein si scrive sotto il nome di Alice come Defoe sotto quello di Robinson. Ma Robinson non ci mette Defoe a ogni paio di righe.
Con un penchant per il pettegolezzo. Non disdicevole: un gradevole small talk, non fosse prolisso.
Di fatto è un repertorio di tutti i nomi, grandi e piccoli, della Parigi artistica a Parigi negli anni 1900-1910, stanziale e di passaggio. Col tono indigesto di “Picasso, sono io”. E con molto name dropping a ogni riga – non basta essere curiosi. Un repertorio anche di tutti gli americani a Parigi, prodromo dell’efflorescenza dopo la Grande Guerra: Hemingway (con più punte di veleno – ma lo Hemingway, peraltro soprattutto bello, che pratica la boxe ed è molto fragile, oltre che infognato nella “carriera”, non è male), Fitzgerald, Sherwood Anderson. Mc Almond et al.. Eccetto che (oltre che di Modigliani) di Nathalie Barney, americana anche lei, che riceveva rue Jacob, non scriveva così bene come miss Stein, ma era bella e molto più disinvolta, celebrata da Gourmont, ed ebbe relazioni con tutte le belle donne di Parigi, anche non americane: viene menzionata, una o due volte, per la sua amica duchessa di Clermont-Tonnerre. E di Margherite, allora Chapin poi Caetani, che comprava giovani pittori più è meglio dei fratelli Stein, e avrebbe coronato Valery, Larbaud, Fargue, Saint-John Perse - prima di promuovere a Roma, alle Botteghe Oscure, mezza letteratura italiana postbellica. E a chi le dice che la apprezza come Picasso e André Gide, risponde, va bene, ma perché Gide? Il tono è questo.
Sarchi ha problemi ad alleggerire il peso di alcuni “negri” dell’autobiografata – da tifosa del generale Grant e non di Lincoln. Specialmente sgradevole nel caso di Paul Robeson, al quale rimprovera gli spiritual: “Non ti appartengono, non più di qualsiasi altra cosa, perché li canti? Lui non rispose”. Nella convinzione che “i negri non stavano soffrendo di persecuzione ma di non essere niente” – “l’africano non è primitivo, ha una cultura antica ma molto ristretta e immobile”.
Una foto celebre ritrae Gertrude Stein con la vera Alice in abito e attitudine monacali, quando si tagliarono i capelli perché la duchessa di Clermont-Tonnerre se li era tagliati. Si direbbe la papessa Gertrude.
Nell’edizione originale corrente, Penguin Classics, con fastidiosi ripetuti Pissaro e Gaugin: sono solo errori di composizione?
Gertrude Stein, Autobiografia di Alice B. Toklas, Marsilio, pp. 312 € 18
Lindau, pp. 360 € 26
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