Secondi pensieri - 448
zeulig
Corpo – Denunciato, anzi
proibito dalla dottrina (catechismo) e dalla pratica cristiana (finisce quasi
sempre in confessionale), e più nei riformati che nel cattolicesimo, per quanto
ordinato e gestito da uomini e donne che lo rifiutano in principio, non è la scintilla
e il lievito del cristianesimo? Il suo trademark
rispetto ad altri monoteismi e il
suo massimo veicolo di propagazione? La Resurrezione è della carne. Il Verbo si
è fatto carne. I miracoli sono carnali. È
il corpo vivo del Cristo che il cristiano onora e adora, non una spoglia
esangue appesa alla croce, a un triangolo di legno.
Se ne trova la misura – della rilevanza del corpo nella dottrina
cristiana – al confronto con l’islam. Che per converso rifiuta - lo disprezza –
il cristianesimo per questa “mancanza di misticismo”, per una sorta di materialismo.
Che a Dio guarda come a una famiglia, con padre, figlio, e buoni consigli e
comportamenti, e con parenti vari, buoni e cattivi, madri, sorelle, cugini,
amanti.
Dio – “C’è un certo modo
di adorare Dio che m fa l’effetto di una bestemmia. C’è un certo modo di negare
Dio che raggiunge l’adorazione”, A. Gide, “Journal”, 1937. È il modo di Scalfari
col papa, e nei suoi sermoni domenicali. Del laico che “vive” con Dio - seppure,
nel caso, di una vita esteriore, per gli onori e la parata. C’è sicuramente un
modo di vivere Dio negandolo – non bestemmiandolo: cercandolo e non “trovandolo”
(che vuol dire “trovare Dio”: non è una cosa, un oggetto).
Fasciocomunismo – Un
antesignano a sorpresa se ne può dire Gide in giro per l’Italia nel 1937, da
antifascista che comincia a essere deluso dal comunismo, visto all’opera di
persona l’anno prima a Mosca: “I re quarti delle iscrizioni italiane
(mussoliniane, n.d.r., del tipo “credere, obbedire, cmbattere”) potrebbe altrettanto bene convenire ai muri di
Mosca”. Dopo avere osservato: “Il comunismo stesso, che si pretende ancora antifascista,
ma non lo è più che politicamente e, anch’esso, domanda agli iscritti del partito
di credere, di obbedire, di combattere,
senza riflessione, senza critica, con circa sottomissione”.
Ironia – Stendhal la
deplora perché disseccatrice – la rimprovera ai francesi, a fronte della “passione”
italiana, la deplora in quanto preclude
ogni entusiasmo. Gide la scopre con entusiasmo (“Journal”, 14 giugno 1905) in Baudelaire,
dopo averne ripreso la lettura col più vivo piacere”: “L’ironia considerata come una forma della macerazione. Molto
importante”.
È la forma in cui la considerava, ignoto a Baudelaire ma con più
titolo, Kierkegaard: come una forma di distacco dal reale – il mondo come è – e
quindi di ascesi. In questo senso, curiosamente, Baudelaire attraverso questa formula
è stato elevato al rango dei mistici da Mauriac, “un martire senza nome”, e
Charles du Bos. Negli indici tematici di Baudelaire l’ironia non merita menzione:
la formula che ha attratto l’attenzione di Gide non è ricorrente, né il tema. A
essa tuttavia fa appello episodico nella corrispondenza. E specifico per quanto
riguarda il poemetto “L’Heautontimorumenos”, dalla prima raccolta “Spleen et
idéal”, titolo derivato da Terenzio, il distruttore di se stesso. La
composizione ha dedica che Baudelaire ha voluto segreta, “A J.G.F.”. Che però
si legge “a Jeanne (Duval) (Butor e altri – Jacques Crépet: “a Jeanne (Duval), Gentille
Femme”. È un avviso di amore sadico: “Ti colpirò senza collera\ e senza odio,
come il macellaio…”. Per una ragione
precisa: “Non sono io un falso accordo\ nella divina sinfonia\ grazie alla
vorace ironia\ che mi scuote e che mi morde?” Per concludere: “Sono del mio
cuore il vampiro,\ uno di quei grandi abbandonati,\ al riso eterno condannati,\
e che non possono più sorridere”. Il
riso distinguendo malefico dal sorriso. Ma è l’ironia il riso? O non il suo
contrario.
L’ironia dissecca, è così. Una forma di comunicazione che è una presa
di distanza. Continua, se è un abito mentale, linguistico, e inevitabile: un
fossato, non colmabile, sia pure con la migliore disposizione dell’interlocutore.
A proposito dell’“Heautontimorumenos”, Baudelaire lo spiega in una lettera (7
arile 1855) al segretario di redazione della “Revue des deux Mondes”, che aveva
in pubblicazione i primi “Fiori del male”: “L’epilogo (indirizzato a una
signora) dice pressappoco questo: Lasciatemi
riposare nell’amore. – Ma no – l’amore non mi riposerà. – Il candore e la bontà
sono disgustose. – Se volete piacermi e rinvigorire i desideri, siate crudele,
bugiarda, libertina, crapulosa e rapinosa! E se non volete essere tutto questo vi
batterò senza collera. Perché io sono il vero rappresentante dell’ironia, e la
mia malattia è assolutamente incurabile”. L’ironia come condanna all’insoddisfazione.
L’ironia come macerazione in senso proprio sarà relazione ripresa da
Jankélevitch nel suo trattato del 1937, “L’ironie”, che fa largo ricorso a casi
presi dalla letteratura e dalla musica. Ma il rapporto esuma in senso storico,
come di un approccio passato, e sbagliato: “Lo scopo dell’ironia non era di lasciarci
macerare nell’aceto dei sarcasmi né, avendo massacrato tutti i fantocci, di elevarne un altro al suo
posto, ma di restaurare quello senza il quale l’ironia non sarebbe ironica: uno
spirito innocente e un cuore ispirato”.
Jankélevitch vuole l’ironia una coscienza al quadrato, “una coscienza
della coscienza”. Una lucidità per fare luce. Contro la cattiveria, la fatuità,
la stupidità. Una saggezza che gioca il gioco della stupidità per arginarla e
aiutarla a indirizzarsi. Ne spiega anche, a lungo, i pericoli, l’ironia potendo
cadere, se non regolata, nelle sue proprie trappole. Ma la compara molto
favorevolmente alle attitudini che le si ritengono prossime: cinismo,
ipocrisia, menzogna a fin di male.
Monoteismo – L’islam si
pretende l’unico vero monoteismo, il cristianesimo perdendosi tra i santi, la
Vergine, la Trinità (così si vuole, anche se l’islam sciita, buona parte, se
non la metà, dell’islam, ha i santi, le
immagini e le preghiere) . E sospetta della teologia, che lavora a unificare
misticamente tutte queste realtà. È però anche vero che il monoteismo rigido
dei mussulmani li ha tenuti fuori, e probabilmente l’ha impedito, dal fulgore
creativo dell’arte. È nel monoteismo politeista – umano – del cristianesimo che
l’arte ha potuto rifiorire – riprendere la trardizione classica, pre-monoteista.
Il vero monoteismo – Dio in sé e per sé – è contrario all’arte? Ma
non è l’arte la prima immagine di Dio, la sua prima opera, il suo primo
suggello?
Vangeli – Sono compendi,
anche “manifesti”, proclamazioni, di una sovversione radicale. Per ciò stesso
storici, altrimenti inimmaginabili. E nuova, senza precedenti. Della resurrezione,
o rinascita. Di un mondo altro, dello spirito, dell’anima. Di singolarità
totale. Perfino, da ultimo, contro il Dio padre – la ribellione, la coscienza
di sé, portando all’estremo. Dopo essere stato contro la famiglia, e anche
contro la casa, la proprietà, il rifugio – la predicazione, con l’esempio, di una
sorta di nomadismo, singolare – ognuno col suo destino.
Sono unitari, ognuno nella sua narrazione. E, tutt’e quattro, convergenti,
seppure narrazioni diverse. Ma tutt’e quattro convergono in una rappresentazione
della vita e i miracoli di Gesù in un mondo e una maniera d’essere diversi, fino
all’entrata in Gerusalemme – quindi per “tre anni”, gli anni dei vangeli, della
predicazione. Diversi dalla condizione consueta, scontata: nomadici, senza
famiglia.
Il fatto è assunto nella condizione sacerdotale: la funzione isola,
da affetti e legami. Ma Gesù e gli apostoli non professano il sacerdozio,
vivono la vita di ognuno.
zeulig@antiit.eu
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