Secondi pensieri - 449
zeulig
Bellezza – È duale, secondo Baudelaire,
che su questa ambivalenza avvia il saggio celebrato che pubblicò nel 1863 su
“Le Figaro”, “Le Peintre dans la vie moderne”. Con cui si proponeva “una teoria
razionale e storica del bello, in opposizione alla teoria del bello unico e
assoluto”: “Il bello è sempre, inevitabilmente, una composizione doppia”, di
“un elemento eterno, invariabile” e di “un elemento relativo, circostanziale”.
Che segue – “di volta in volta o tutto insieme” – “l’epoca, la moda, la morale,
la passione”. È dell’arte come della vita: “La dualità dell’arte è una
conseguenza fatale della dualità dell’uomo”. Composto della “parte eternamente sussistente
come l’anima dell’arte” e dall’“elemento variabile come il suo corpo”.
Baudelaire
rivaluta per questo Stendhal, di cui non mostra grande opinione, per aver rotto
l’accademismo dichiarando (“Dell’amore”): “La bellezza non è che la promessa
della felicità”.
Dell’affollato
repertorio di riflessioni sulla bellezza che ha accompagnato il volgere del
Millennio con cui apre la “Storia della Bellezza”, Gadamer, Santayana, Zecca,
Rella, Bodei (lui evita l’azzardo), Eco non salva poi niente. Rimandando ad Aristotele,
e a Platone. Al canone, in fondo, della misura, la simmetria, la regolarità, l’ordine
– comprese le eccezioni, ma in riferimento al canone.
Comico – Baudelaire, “De l’essence du
rire”, lo riconduce al cristianesimo, all’habitus mentale cristiano, che di
tanti figure e credenze ha fatto ridicolaggini.
Non senza
argomenti. Si prendano, scrive, “le figure grottesche che ci ha lasciato
l’antichità”: maschere, figurine di bronzo, Ercoli muscolosi, Priapi tutti
cervelletto e fallo. Questi “Veneri, Pan, Ercoli non erano personaggi
ridicoli”. Lo sono diventati “dopo la venuta di Gesù, col concorso di Platone e
Seneca – “quei feticci erano segni di adorazione, tutt’al più simboli di
forza”, certo non creazioni di uno spirito comico. O altrove: “Gli idoli
indiani e cinesi ignorano che sono ridcoli; è in noi, cristiani, che è il
comico”.
Dio – È “un banale caso di masochismo”,
nella conclusione di un’irriverente riflessione di Cesare Pavese (“Il mestiere
di vivere”, 13 maggio 1938): “Siccome D io poteva creare una libertà che non
consentisse il male (cfr. lo stato dei beati liberi e certi di non peccare), ne viene che il male l’ha voluto lui. Ma il
male lo offende. È quindi un banale caso di masochismo”.
Ermeneutica – Senza
citarla, Cesare Pavese ne dubita così, ne “Il mestiere di vivere, nel 1941, 30
gennaio – senza acrimonia, lui stesso si dilettava dei godimenti dell’ermeneutica,
ma perplesso: “Se anche la lettura
silenziosa che facciamo di una poesia per conoscerla è interpretazione, non
si vede più come si possa costruire un giudizio storico su di una poesia – dato
che conoscerla significa creare dentro di noi un’altra opera”. È impossibile anche una semplice valutazione, prima che il giudizio
storico.
Ironia – È tutt’altra
cosa dal comico: un occhio non comico sul comico. Da maneggiare con attenzione:
l’ironia è creativa ma anche velenosa, dissecca. Un’anatomia, sotto la lama
insopprimibile di se stessi. Un match di scherma, con lama sottile, un
fioretto, che incide senza sopprimere, ma isolante più che protettivo – la
critica è una scherma, con l’opera e con l’autore, una scherma protetta, con
maschera e visiera.
Pessimismo – In alcuni
soggetti eminentemente creativi, Baudelaire, lo stesso Leopardi (e Nietzsche? e Kiekegaard?), è la
confutazione del nichilismo, che è il vero pessimismo, della ragione. C’è un pessimismo
creativo anche al di sotto dello stesso argomentare nichilista. È il caso di
Baudelaire – e di Leopardi, anche lui creatore instancabile, che ha vissuto
meno e malaticcio, ma ha “prodotto” moltissimo, in misura si direbbe incommensurabile
in rapporto all’età, alla semi indigenza, alla poca salute. Baudelaire si vuole
pessimista perché radicato nel pessimismo cristiano. Ma è uno, malgrado tutto,
interiezioni e lamenti, positivo: grande lavoratore, instancabile, pur
volendosi dandy, e cultore della flânerie, del non far nulla, energizzante,
creativo.
Vale come metro, come forma critica: un denudamento per un migliore
(approfondito, accurato) apprezzamento critico,
valutazione.
È il pessimismo cristiano la confutazione del pessimismo: è un
realismo, poiché consente di superare il pessimismo – cioè l’inerzia. Sia pure
– si creda pure – illusoriamente.
Stupore – Jeanne Hersch aveva già concluso, fin dalla
prima pagina del suo trattato “L’étonnement philosophique”, lo stupore
adottando come innesco della conoscenza: “Stupirsi, è proprio dell’uomo”. Con
stupore può chiedersi la poetessa (Patrizia Cavalli, “Datura”): “Possibile\ che
solo a noi sia dato lo stupore?” Mentre non aveva dubbi il presepio napoletano,
che ha tra le figure classiche il Guardincielo, che fa la bocca a O, il pastore dello Stupore.
Vico non sarebbe stato
d’accordo, che voleva gli uomini “bestioni tutto stupore e ferocia”. Ma è
indubbio: la filosofia nasce con esso, lo stupore è ciò che ha portato gli
antichi greci a porsi le loro strane domande. Ma a mano a mano lo stupore scema,
o la scoperta: le ultime domande, se non le risposte, sono sempre la prima. Mentre
lo stupore non può fare a meno della novità, come nota Baudelaire recensendo
l’Esposizione universale del 1855: “Lo stupore, che è uno dei grandi godimenti
causati dall’arte e la letteratura, tiene alla varietà dei tipi e delle
sensazioni”.
È proprio della prima età,
scema o scompare con l’anzianità. È proprio delle culture “nuove” – di scoperta
recente o innovative, d’avanguardia. È la scoperta: la filosofia è stupore in
quanto è scoperta.
Le ultime risposte, per quanto
sofisticate, variano peraltro poco: il nominalismo, vedo il cavallo ma non la
cavallinità, il realismo, la soggettività, da Descartes a Nietzsche, inclusa
l’impossibilità del Cristo o della fede (Kerkegaard), e l’irriducibilità
dell’essere (Bergson), l’inconscio, la rimozione (Freud), la trascendenza, la
temporalità. E non più risolutive che l’aria, l’acqua, il fuoco e
l’infinito dei milesi, nemmeno tanto nuove. La capacità di stupire della
filosofia è limitata? Specie nel mainstream, da Kant in qua, della
filosofia sistematica, assertiva. “Che cos’è l’essere”, direbbe ancora Hume, o
la scuola di Mileto. La ricerca dell’“essere dell’esistente” è piena Mileto. Anche
se
L’esito è nuovo, è quello di
Kant: il soggetto non può aggiungere nulla all’essere. Ma non al di fuori o al
di là del paradosso di Zenone: il moto e il mutamento dominano la nostra
esperienza della realtà, ma noi siamo incapaci di pensarli.
Tragedia - È agita da
“agonisti”, atleti, lottatori. Cui fa da interlocutore il coro: attore impersonale,
poiché enuncia (evoca, stabilisce) la ubris.
Che è conoscere l’oracolo e non tenerne conto – una bestemmia. Ma è ubris anche l’oracolo. E insomma il coro
è il fato. Sembrerebbe questo meccanismo (la tragedia) la constatazione
dell’inutilità del fare. Ma ne è la celebrazione: che altro “fare” se non
fare?
zeulig@antiit.eu
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