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Tre vite e nessuna, o della Germania confusa
“Una gabbietta per uccelli” apre
il racconto: “Dentro, uno scoiattolo cerca l’uscita da giorni”.
La tensione è assicurata dall’avvio
sinfonico, col tema dominante della composizione e i suoi possibili esiti, in
rispondenza a una storia passata che non conosciamo. È Josef Klein, che ritorna
a Neuss, in Renania, nel 1949, un tedesco emigrato in America, confinato
durante la guerra in quanto cittadino alieno, a Sandstone, Minnesota, “un vero
carcere con veri delinquenti”, e poi in prigione dorata a Ellis Island, fino alla
deportazione? Una spia, forse per conto dell’Fbi, che pure lo deporta in
Germania, forse per conto a suo tempo di Hitler, dell’ammiraglio Canaris che ne
organizzava (male, a tradimento?) le spie? Un tedesco povero emigrato in
gioventù e ora deportato come indesiderabile nella sua Germania, sulle spalle e
a spese del fratello commerciante? Forse l’uno e l’altro.
Josef era ed è uno degli innominabili,
degli hitleriani. Che fa per mestiere – lavora in tipografia – manifestini e
programmi per il German American Bund, per il Partito Nazista Americano, per gli
American Patriots, gente che non ama. Così con ama la ricca Little Germania di
Yorkville, il quartiere tedesco nella parte buona di Manhattan. Un uomo
semplice, dal cuore buono – per sei mesi porta ogni giorno la cagnetta
abbandonata sul posto dell’abbandono, in caso. Collaborazionista confuso,
controvoglia anche, ma non tanto: non è un resistente, è un mediocre.
L’America è confusa. “Mein Kampf”
è nella lista dei bestseller del “New York Times”. Charles Lindbergh,
isolazionista filohitleriano, ha largo seguito alla radio – “America First” è
il suo comitato. Fino a tutto il 1939, Hollywood ha avuto un occhio
di riguardo per il mercato tedesco, togliendo i nomi ebraici dai titoli di coda.
Josef ritorna sull’onda di “un
caso” giornalistico: protagonista in qualche modo del primo reportage che
“Stern”, il settimanale a sensazione appena creato in Germania sull’esempio di
“Life”, dedica ai servizi segreti tedeschi in America al tempo di Hitler. Senza
mestiere, e senza mezzi, finirà in Argentina, espatriato e accolto dai reduci,
che “fumavano grossi sigari” e parlavano “del governo in esilio che di lì a
poco avrebbe deposto Adenauer, la marionetta degli americani”. Un modo che rifiuta,
che lui si dice rifiutare, ma che lo protegge. Tra “visioni” intermittenti che
rinviano il lettore avvertito alla riunione sul Wannsee a fine 1941, il lago
berlinese dove si decise lo sterminio degli ebrei: acqua che gorgoglia
sciabordando, il vento nelle orecchie, “svastiche di glassa di cioccolato”
sulle torte, “svastiche incise sugli stipiti”, e il divieto di parlarne. Ma
potrebbe non essere – la “visione” non viene più ripresa: Josef vive ora in
Costarica, dove si aspettava l’uscita di “Stern”. E il ritorno trascina
nell’attesa nervosa di un signor Dörsam. Un personaggio da poco, a cui deve i
suoi documenti falsi e la sussistenza, da Neuss a Buenos Aires e in Costa
Rica.
Un thriller che infine si rivela
storico. Con una restituzione puntigliosa di ambienti, persone, eventi. Su vecchie
foto, cartoline, dischi, giornali. Sull’operazione Pastorius, il ridicolo
sbarco di un gruppo di spie tedesche, ubriachi ls gran parte, da infiltrare
negli Usa. E sulla rete di spionaggio Duquesne, dei servizi tedeschi in America
nel 1939-1940. Di cui però non approfondisce e spiega i termini. Una “storia
della storia” limitandosi a rappresentare, attorno a un destino privato. Sui
toni di “Smiley”, il personaggio e il mondo di Le Carrè, dello spionaggio
grigio e triste. Un grosso nodo di avventure, si cambia di prospettiva ogni paio
di pagine, ma in tono dimesso, da vinti. Neuss è la Germania del primo
dopoguerra, con frotte di profughi e mutilati che rovistano fra le rovine. Dove
si mangia con le tessere, e il caffè è ancora quello che Josef ha mandato con i
“pacchi” al fratello Carl – “trenta pacchi dal 1946 al 1949”. Più “i soldi
destinati all’avvocato”, altro indizio, altro spiraglio di storia, “seicento
dollari” in biglietti dentro i pacchi.
La vita minuta vi si vive, anche,
del tedesco piccolo, negli anni della sconfitta. Carl è il fratello che Josef
ritrova dopo venticinque anni: si sono separati a Ellis Island, dopo il viaggio
in comune sulla nave, quando Carl è stato respinto per la menomazione alla vista, un occhio di vetro
per un infortunio sul lavoro, alla saldatura. Ha un suo piccolo commercio, e in
quache modo se la cava, a casa sua c’è da mangiare. Josef ha vissuto a Est
Harlem, “in una delle poche case belle” di un quartiere “privo di ogni
fascino”, che così lo ha protetto, con “la sua attrezzatura ricetrasmittente” e
con Princess, la cagnetta abbandonata - ma è una nobilissima “femmina di pastore tedesco”. Ha vissuto di espedienti, è
radioamatore, sulle onde radio incontra una ragazza che non gli piace ma con la
quale arriva a convivere. Della cognata che lo accudisce in patria arriva a
rubare i minimi trasalimenti. In Costa Rica è accudito da una donna che un
giorno ha “la forma di una piccola botte”, e un giorno è “bella”.
Un’esistenza vicaria. È il tono
che dà il senso alla storia: una dimensione misurata, smagrita, pencolante.
Come si vuole la spia dopo Le Carrè, col fascino della mediocrità. Qui con
qualcosa in più: la Germania diversa, e dimessa, quale è riemersa nel
dopoguerra – Josef è a suo modo un “nuovo tedesco”, confuso.
La confusione è però anch’essa
lieve, per indizi minimi. Così la vuole la scrittura, da maestra di scrittura
quale Lenze figura - oltre che di scrittrice vissuta, benché giovane, in mondi
altri, l’India, la Siria, l’Iraq: succeda quello che deve.
Ulla Lenze, Le tre vite di Josef Klein, Marsilio, pp. 288 € 17
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