mercoledì 5 maggio 2021

Tre vite e nessuna, o della Germania confusa

“Una gabbietta per uccelli” apre il racconto: “Dentro, uno scoiattolo cerca l’uscita da giorni”.
La tensione è assicurata dall’avvio sinfonico, col tema dominante della composizione e i suoi possibili esiti, in rispondenza a una storia passata che non conosciamo. È Josef Klein, che ritorna a Neuss, in Renania, nel 1949, un tedesco emigrato in America, confinato durante la guerra in quanto cittadino alieno, a Sandstone, Minnesota, “un vero carcere con veri delinquenti”, e poi in prigione dorata a Ellis Island, fino alla deportazione? Una spia, forse per conto dell’Fbi, che pure lo deporta in Germania, forse per conto a suo tempo di Hitler, dell’ammiraglio Canaris che ne organizzava (male, a tradimento?) le spie? Un tedesco povero emigrato in gioventù e ora deportato come indesiderabile nella sua Germania, sulle spalle e a spese del fratello commerciante? Forse l’uno e l’altro.
Josef era ed è uno degli innominabili, degli hitleriani. Che fa per mestiere – lavora in tipografia – manifestini e programmi per il German American Bund, per il Partito Nazista Americano, per gli American Patriots, gente che non ama. Così con ama la ricca Little Germania di Yorkville, il quartiere tedesco nella parte buona di Manhattan. Un uomo semplice, dal cuore buono – per sei mesi porta ogni giorno la cagnetta abbandonata sul posto dell’abbandono, in caso. Collaborazionista confuso, controvoglia anche, ma non tanto: non è un resistente, è un mediocre.
L’America è confusa. “Mein Kampf” è nella lista dei bestseller del “New York Times”. Charles Lindbergh, isolazionista filohitleriano, ha largo seguito alla radio – “America First” è il suo comitato. Fino a tutto il 1939, Hollywood ha avuto un occhio di riguardo per il mercato tedesco, togliendo i nomi ebraici dai titoli di coda.
Josef ritorna sull’onda di “un caso” giornalistico: protagonista in qualche modo del primo reportage che “Stern”, il settimanale a sensazione appena creato in Germania sull’esempio di “Life”, dedica ai servizi segreti tedeschi in America al tempo di Hitler. Senza mestiere, e senza mezzi, finirà in Argentina, espatriato e accolto dai reduci, che “fumavano grossi sigari” e parlavano “del governo in esilio che di lì a poco avrebbe deposto Adenauer, la marionetta degli americani”. Un modo che rifiuta, che lui si dice rifiutare, ma che lo protegge. Tra “visioni” intermittenti che rinviano il lettore avvertito alla riunione sul Wannsee a fine 1941, il lago berlinese dove si decise lo sterminio degli ebrei: acqua che gorgoglia sciabordando, il vento nelle orecchie, “svastiche di glassa di cioccolato” sulle torte, “svastiche incise sugli stipiti”, e il divieto di parlarne. Ma potrebbe non essere – la “visione” non viene più ripresa: Josef vive ora in Costarica, dove si aspettava l’uscita di “Stern”. E il ritorno trascina nell’attesa nervosa di un signor Dörsam. Un personaggio da poco, a cui deve i suoi documenti falsi e la sussistenza, da Neuss a Buenos Aires e in Costa Rica.
Un thriller che infine si rivela storico. Con una restituzione puntigliosa di ambienti, persone, eventi. Su vecchie foto, cartoline, dischi, giornali. Sull’operazione Pastorius, il ridicolo sbarco di un gruppo di spie tedesche, ubriachi ls gran parte, da infiltrare negli Usa. E sulla rete di spionaggio Duquesne, dei servizi tedeschi in America nel 1939-1940. Di cui però non approfondisce e spiega i termini. Una “storia della storia” limitandosi a rappresentare, attorno a un destino privato. Sui toni di “Smiley”, il personaggio e il mondo di Le Carrè, dello spionaggio grigio e triste. Un grosso nodo di avventure, si cambia di prospettiva ogni paio di pagine, ma in tono dimesso, da vinti. Neuss è la Germania del primo dopoguerra, con frotte di profughi e mutilati che rovistano fra le rovine. Dove si mangia con le tessere, e il caffè è ancora quello che Josef ha mandato con i “pacchi” al fratello Carl – “trenta pacchi dal 1946 al 1949”. Più “i soldi destinati all’avvocato”, altro indizio, altro spiraglio di storia, “seicento dollari” in biglietti dentro i pacchi. 
La vita minuta vi si vive, anche, del tedesco piccolo, negli anni della sconfitta. Carl è il fratello che Josef ritrova dopo venticinque anni: si sono separati a Ellis Island, dopo il viaggio in comune sulla nave, quando Carl è stato respinto per la  menomazione alla vista, un occhio di vetro per un infortunio sul lavoro, alla saldatura. Ha un suo piccolo commercio, e in quache modo se la cava, a casa sua c’è da mangiare. Josef ha vissuto a Est Harlem, “in una delle poche case belle” di un quartiere “privo di ogni fascino”, che così lo ha protetto, con “la sua attrezzatura ricetrasmittente” e con Princess, la cagnetta abbandonata - ma è una nobilissima “femmina di pastore tedesco”. Ha vissuto di espedienti, è radioamatore, sulle onde radio incontra una ragazza che non gli piace ma con la quale arriva a convivere. Della cognata che lo accudisce in patria arriva a rubare i minimi trasalimenti. In Costa Rica è accudito da una donna che un giorno ha “la forma di una piccola botte”, e un giorno è “bella”.
Un’esistenza vicaria. È il tono che dà il senso alla storia: una dimensione misurata, smagrita, pencolante. Come si vuole la spia dopo Le Carrè, col fascino della mediocrità. Qui con qualcosa in più: la Germania diversa, e dimessa, quale è riemersa nel dopoguerra – Josef è a suo modo un “nuovo tedesco”, confuso.
La confusione è però anch’essa lieve, per indizi minimi. Così la vuole la scrittura, da maestra di scrittura quale Lenze figura - oltre che di scrittrice vissuta, benché giovane, in mondi altri, l’India, la Siria, l’Iraq: succeda quello che deve.
Ulla Lenze,
Le tre vite di Josef Klein, Marsilio, pp. 288 € 17 


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