Il carcere dentro (di sé)
Subito
dopo essere arrivato al luogo del confino, remoto, tra “terre aride” e una
“spiaggia desolata”, Stefano trasale intravedendo una certa ragazza, che farà
da traccia poi per il racconto, e si ripropone di “affrancarsi dal desiderio”.
Confinato politico, è reduce dal carcere a Regina Coeli, nell’amarezza e non
nella sovversione: “Nessuno si fa casa di una cella”. Per nessun motivo. Ma poi
è la vita, almeno in quell’anno, in quel periodo, a essere prigione: “La cella
era fatta di questo: il silenzio del mondo”. La solitudine. Il carcere? “Meglio
restarci per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”.
Stefano
trascorre la sua vita nel remoto paese frastornato e come assente, pur raccontando
la sua esperienza in prima persona. Partecipe degli eventi quotidiani, e della
comunità, ma abulico, assente. A un certo punto verso la fine, quando nella
frazione superiore, ancora più remota, arriva confinato un vero politico, un
irriducibile, forse anarchico, e cerca un contatto, che Stefano cerca di
evitare, chiamerà “vigliaccheria la sua
gelosa solitudine”.
Il
lettore sa oggi che quella solitudine era risentita per un fatto biografico,
l’abbandono da parte della donna per la quale lo scrittore pensava di essersi
sacrificato, con la prigione e il confino. Ma senza questo riferimento
personale, causale, il racconto è in sé curiosamente “kafkaesco”, di una vita
senza appigli, di un mondo che gira in tondo, di spiegazioni che non spiegano.
Scritto
tra fine 1938 e i primi tre mesi del 1939, col titolo provvisorio “Memorie da
due stagioni”, Pavese lo pubblicò solo dieci anni dopo, nel 1948. Insieme
con “La casa in collina”, un dittico che
intitolò, evangelicamente, apostolicamente (il tradimento), “Prima che il gallo
canti” - che tuttora viene ripubblicato come tale, da ultimo nell’ottima
edizione Garzanti, con ampie annotazioni di Gabriele Pedullà. A ridosso di
Carlo Levi, “Cristo s’è fermato a Eboli”, una delle prime pubblicazioni
postbelliche, 1945, d’inaspettato successo, di pubblico e di critica.
“Il
carcere” è, al contrario di Levi, che fa un reportage,
un memoir si direbbe oggi, appena
appena romanzato: una sorta di diario grigio, risentito, lagnoso anche, di un
confinato, senza passioni. Di un confinato politico che ha in dispetto la politica. Il diario
di una vita sbagliata. ridotta a un modo di essere quasi animale.
Pavese
aveva tentato subito di raccontare il confino, nel 1936 appena libero, nella
prosa breve “Terra d’esilio”. Maturando
dopo la guerra dell’impero e l’Asse la radicalizzazione del fascismo e quindi
una scelta politica, più o meno inconsciamente Pavese s’interroga nel 1939
sulla sua capacità d’impegno, se non di fede politica. Oggi, alla luce poi de
“Il mestiere di vivere” e del “Diario segreto”, “Il carcere” si legge anche
come un rifiuto della politica: la politica è come il carcere, una privazione. I
personaggi che girano attorno a Stefano non sono eroici, hanno tutti più o meno
una loro personalità, ma tutti sono vittime delle illusioni politiche. Si vive
senza. Partendo dal maresciallo dei Carabinieri che dovrebbe controllarlo, ed è
invece il suo consigliere benevolo.
Il
rifiuto matura per il rifiuto dell’amata, attivista politica per la quale lui
si è sacrificato e che ora lo trascura e anzi lo dimentica. Questo il lettore
lo sa per certo se ha letto il diario, “Il mestiere di vivere”, e la corrispondenza,
ma è detto, senza riferimenti personali, anche nel racconto: il sacrificio a
che fine?
Si
vive nella provvisorietà. Una donna accudisce Stefano, Elena, disponibile anche
e letto e discreta, ma senza rilievo: “Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino
e gli entrasse nel letto come una ,moglie, ma se ne andasse come un sogno che
non chiede parole né compromessi”. Si crea un mito, Concia, di una ragazza
“caprigna”, selvaggia, che è già madre di un figlio del padrone, e non parla,
non guarda. Vive il confino tra “pareti invisibili, l’abitudine della cella,
che gli precludeva ogni contatto umano”.
Un
racconto sottovalutato – la costruzione non invita, sembra perfino scritto di
getto, come viene, non costruito. Per la teorizzazione della “perfetta solitudine”.
Del desiderio di solitudine, o dell’incapacità, con tutti i buoni sentimenti,
di comunicare, fare parte di un mondo, una comunità, un gruppo, un’amicizia. Il
carcere, anche senza ponti levatoi, è l’insignificanza della politica, come qui
spesso si ripete, se non è viltà, quasi professata, comunque riconosciuta.
Sottovalutato
anche per la scrittura, a lettura ultimata, che fa giustizia della prima
impressione. Un racconto di situazioni e caratteri fluidi e non ben contornati,
come molti in Pavese, e di eventi per lo più minimi. Ma l’ambiguità si fa
leggere d’un fiato. E la curiosità: è un racconto ben localizzato,
conoscendo i luoghi e i linguaggi, è ben un romanzo (racconto) di Brancaleone
che Pavese ha scritto: il paese che guarda l’Africa dove ha passato lunghi mesi
al confino politico non è una semplice scena teatrale. Si comincia subito: come
i suoi compagni di conversazione all’osteria, una “scelta” portata dall’età (i
giovani con i giovani), “tutto il paese conversava così, a occhiate e canzonature”.
Subito si fa anche dire: “Siamo gente inquieta che sta bene in tutto il mondo
ma non al suo paese”. Concetto insistito: “Si è vecchi quando si torna al
paese”. Un antropologo di mestiere non saprebbe trovare di meglio, dopo mesi
e anni di osservazione: in Pavese c’è come una identificazione.
Cesare
Pavese, Il carcere, Einaudi, pp. 144
€ 10
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