mercoledì 30 giugno 2021

Il carcere dentro (di sé)

Subito dopo essere arrivato al luogo del confino, remoto, tra “terre aride” e una “spiaggia desolata”, Stefano trasale intravedendo una certa ragazza, che farà da traccia poi per il racconto, e si ripropone di “affrancarsi dal desiderio”. Confinato politico, è reduce dal carcere a Regina Coeli, nell’amarezza e non nella sovversione: “Nessuno si fa casa di una cella”. Per nessun motivo. Ma poi è la vita, almeno in quell’anno, in quel periodo, a essere prigione: “La cella era fatta di questo: il silenzio del mondo”. La solitudine. Il carcere? “Meglio restarci per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”.
Stefano trascorre la sua vita nel remoto paese frastornato e come assente, pur raccontando la sua esperienza in prima persona. Partecipe degli eventi quotidiani, e della comunità, ma abulico, assente. A un certo punto verso la fine, quando nella frazione superiore, ancora più remota, arriva confinato un vero politico, un irriducibile, forse anarchico, e cerca un contatto, che Stefano cerca di evitare, chiamerà  “vigliaccheria la sua gelosa solitudine”.
Il lettore sa oggi che quella solitudine era risentita per un fatto biografico, l’abbandono da parte della donna per la quale lo scrittore pensava di essersi sacrificato, con la prigione e il confino. Ma senza questo riferimento personale, causale, il racconto è in sé curiosamente “kafkaesco”, di una vita senza appigli, di un mondo che gira in tondo, di spiegazioni che non spiegano.
Scritto tra fine 1938 e i primi tre mesi del 1939, col titolo provvisorio “Memorie da due stagioni”, Pavese lo pubblicò solo dieci anni dopo, nel 1948. Insieme con  “La casa in collina”, un dittico che intitolò, evangelicamente, apostolicamente (il tradimento), “Prima che il gallo canti” - che tuttora viene ripubblicato come tale, da ultimo nell’ottima edizione Garzanti, con ampie annotazioni di Gabriele Pedullà. A ridosso di Carlo Levi, “Cristo s’è fermato a Eboli”, una delle prime pubblicazioni postbelliche, 1945, d’inaspettato successo, di pubblico e di critica.
“Il carcere” è, al contrario di Levi, che fa un reportage, un memoir si direbbe oggi, appena appena romanzato: una sorta di diario grigio, risentito, lagnoso anche, di un confinato, senza passioni. Di un  confinato politico che ha in dispetto la politica. Il diario di una vita sbagliata. ridotta a un modo di essere quasi animale.
Pavese aveva tentato subito di raccontare il confino, nel 1936 appena libero, nella prosa breve  “Terra d’esilio”. Maturando dopo la guerra dell’impero e l’Asse la radicalizzazione del fascismo e quindi una scelta politica, più o meno inconsciamente Pavese s’interroga nel 1939 sulla sua capacità d’impegno, se non di fede politica. Oggi, alla luce poi de “Il mestiere di vivere” e del “Diario segreto”, “Il carcere” si legge anche come un rifiuto della politica: la politica è come il carcere, una privazione. I personaggi che girano attorno a Stefano non sono eroici, hanno tutti più o meno una loro personalità, ma tutti sono vittime delle illusioni politiche. Si vive senza. Partendo dal maresciallo dei Carabinieri che dovrebbe controllarlo, ed è invece il suo consigliere benevolo.
Il rifiuto matura per il rifiuto dell’amata, attivista politica per la quale lui si è sacrificato e che ora lo trascura e anzi lo dimentica. Questo il lettore lo sa per certo se ha letto il diario, “Il mestiere di vivere”, e la corrispondenza, ma è detto, senza riferimenti personali, anche nel racconto: il sacrificio a che fine?
Si vive nella provvisorietà. Una donna accudisce Stefano, Elena, disponibile anche e letto e discreta, ma senza rilievo: “Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una ,moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi”. Si crea un mito, Concia, di una ragazza “caprigna”, selvaggia, che è già madre di un figlio del padrone, e non parla, non guarda. Vive il confino tra “pareti invisibili, l’abitudine della cella, che gli precludeva ogni contatto umano”.
Un racconto sottovalutato – la costruzione non invita, sembra perfino scritto di getto, come viene, non costruito. Per la teorizzazione della “perfetta solitudine”. Del desiderio di solitudine, o dell’incapacità, con tutti i buoni sentimenti, di comunicare, fare parte di un mondo, una comunità, un gruppo, un’amicizia. Il carcere, anche senza ponti levatoi, è l’insignificanza della politica, come qui spesso si ripete, se non è viltà, quasi professata, comunque riconosciuta.
Sottovalutato anche per la scrittura, a lettura ultimata, che fa giustizia della prima impressione. Un racconto di situazioni e caratteri fluidi e non ben contornati, come molti in Pavese, e di eventi per lo più minimi. Ma l’ambiguità si fa leggere d’un fiato. E la curiosità: è un racconto ben localizzato, conoscendo i luoghi e i linguaggi, è ben un romanzo (racconto) di Brancaleone che Pavese ha scritto: il paese che guarda l’Africa dove ha passato lunghi mesi al confino politico non è una semplice scena teatrale. Si comincia subito: come i suoi compagni di conversazione all’osteria, una “scelta” portata dall’età (i giovani con i giovani), “tutto il paese conversava così, a occhiate e canzonature”. Subito si fa anche dire: “Siamo gente inquieta che sta bene in tutto il mondo ma non al suo paese”. Concetto insistito: “Si è vecchi quando si torna al paese”. Un antropologo di mestiere non saprebbe trovare di meglio, dopo mesi e anni di osservazione: in Pavese c’è come una identificazione.   

Cesare Pavese, Il carcere, Einaudi, pp. 144 € 10

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