venerdì 25 giugno 2021

L’Algeria, così vicina così lontana

Dopo l’autobiografia, “L’Écrivain”, scritta nel 2001, all’arrivo a Parigi, avendo lasciato l’esercito e l’Algeria nella guerra civile, da “arabizzante” di formazione che ha scelto il francese per esprimersi, come lui stesso qui puntualizza, una lunga intervista con Catherine Lalanne. Molto è della vita militare, una gabbia dura, per 36 anni. A partire dai 9, sottratto d’autorità e senza nemmeno una spiegazione dal padre alla madre e ai fratelli, per confinarlo al collegio dei cadetti. Un passato e una paternità che tuttora ossessionano lo scrittore. Cresciuto, nelle poche licenze dal collegio militare e dalle caserme, con una madre infine ripudiata dal padre, dopo una serie di va e vieni con spose occasionali, e confinata con i figli a una vita povera in una periferia spersa, sporca. Qui lo scrittore paga infine un omaggio alla madre, con la quale si fa ritrarre in grasse risate poco prima della sua morte, che non sapeva leggere né scrivere, ma per la quale il racconto, ogni racconto, anche di poveri poeti di strada, era una rappresentazione, cosa viva.
Un libro nato come una celebrazione, di questo scrittore algerino adottato, tardi, dalla Francia, Mohammed Moulessehoul, che pubblica con uno pseudonimo femminile, due dei nomi della moglie, adottato quando cominciò a pubblicare negli anni 1980, essendo ancora un ufficiale in servizio permanente effettivo dell’esercito algerino (si congederà nel 2000, ai 35 anni di servizio, collegio compreso, avendo maturato la pensione, col grado di colonnello), è una resa dei conti con se stesso. Con un’infanzia che ancora lo turba, tema già di “L’écrivain”. E di più - lui non lo sa ma il lettore lo avverte – per non sapersi “liberare” del padre, che tuttora malgrado tutto onora. La figura paterna come la cultura di origine: come l’Algeria. Dove ha vissuto in prima linea una guerra civile ultradecennale, violentissima, ma di cui mantiene integro il format culturale – c’è l’innatismo anche nella cultura. A partire dal matrimonio combinato: quello dei genitori negli anni 1940, e ancora il suo, nel 1990: “A trent’anni chiesi a mio padre di trovarmi moglie” – i promessi sposi s’incontrarono solo una volta prima del matrimonio, e il matrimonio è stato ed è felice.
Non la solita intervista d’autore, il libro è per questo sorprendente: è come un manuale di antropologia raccontato dal vivo. Khadra-Moulessehoul è “testimone”, volontario e attendibile, di una antropologia insieme remota e viva, attuale, vicina. Riservato, non intende portarsi ad accusatore del suo paese, ma ben informativo. Di un paese che quarant’anni fa sembrava avviato sulla strada del benessere, integrato all’Europa, per un dirigismo che l’eredità ancora viva del Fronte di Liberazione Nazionale manteneva efficace, e si è poi dissolto tra una corruzione spropositata e il fondamentalismo islamico. Un paese multietnico. Che ha fatto scelte d’avvenire sicuramente controproducenti, come il monolinguismo. Ed è uscito dalla guerra civile con i problemi di prima peggiorati: la corruzione, la borghesia di rapina, il non expedit islamico. La guerra civile lo scrittore sa descrivere bene in breve, lunga e crudele – basti l’evocazione di Sidi Alì, a Mostaganem, quando l’1 novembre 1994, alla festa per i cinquant’anni della guerra di Liberazione, un ordigno ad alto potenziale, nascosto nella tomba di un “martire” della rivoluzione, sbriciolò, letteralmente, un gruppo di bambini, di boy-scout.- “quel giorno, sì, avevo perduto la fede”.
È, soprattutto nella prima parte, un quadro per una volta semplice e diretto della vita degli algerini in Algeria fino a qualche decennio dopo l’indipendenza, nel 1963 – fino a un cinquantina di anni fa. La tribù, dei Dui-Menia, dissolta, dopo un’esistenza di sei-sette secoli,  alla sconfitta da parte dei francesi, quando nel 1903 occuparono anche il Sud Sahara. Insieme con l’onorata famiglia dei Moulessehoul, parte consistente della tribù. I matrimoni combinati. Il suo stesso matrimonio combinato, quando era capitano o maggiore e aveva trent’anni, quindi trent’anni fa. La volagerie del padre, figura in Algeria onnipotente, a Orano, la città di Camus e degli elevati ragionamenti della sua “Peste”, non nel profondo del Sahara, che entrava e usciva dalla famiglia ogni pochi mesi, curioso e insieme stufo di nuove mogli – fino all’abbandono definitivo della famiglia, da cui continua però a essere onorato. Un padre a sua volta vittima: “Mio padre non si ricorda di essere stato un bambino”, orfano presto di madre, con un padre “patriarca decaduto” con la sconfitta del 1903, votato all’abbrutimento – “mio padre aveva il sentimento di non essere amato… mio nonno colpevolizzava”.  
Interessante anche l’arrivo a Parigi, appena maturata la pensione militare, nel 2000. In piena guerra civile in Francia: l’opinione francese era per i fondamentalisti! Lo scrittore difese l’esercito, spiegando che non massacrava e non torturava, ma tentava di difendere la democrazia, e fu massacrato: spione, agente provocatore, eccetera. Dovette tornarsene a Orano, anche se aveva liquidato tutto in Algeria e le figlie erano alle scuole in Francia. Solo dopo qualche anno fu “riabilitato”.
    
Il titolo, il bacio e il morso, è “il nostro
mektub”, spiega lo scrittore – “la bocca che mi bacia su una guancia mi morde sull’altra”.
Yasmina Khadra, Le Baiser et la Morsure, Pocket, pp. 183, ill, € 7

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