Nel 2018 la Banca Mondiale
ha calcolato che in Cina si produceva il 28 per cento del valore aggiunto
industriale mondiale, negli Stati Uniti il 17 per cento, come nella Unione
Europea, in Giappone il 7 per cento, in Corea del Sud il 3, come in India. Una
quota, quella cinese, negli ultimi due anni verosimilmente aumentata, malgrado
i paletti posti da Trump.
Le stime precedenti hanno
visto per un secolo gli Stati Uniti al primo posto, con percentuali diverse a
seconda dei diversi calconi degli economisti, ma tutte elevate. Lo storico
belga-svizzero dell’econmia del Terzo mondo Paul Bairoch ha cacoallo che nel
1913, prima della Grande Guerra, gli Stati Uniti producevano già il 32 per
cento del valore aggiunto industriale mondiale, la Germania il 14,8 per cento,
la Gran Bretagna il 13,6, la Russia l’8,2, la Francia il 6,1. Alla vigilia
della seconda guerra mondiale, nel 1937,
lo storico tedesco-britannico dell’economia Hal Hillmann attribuisce agli Usa
il 35,1 per cento del valore aggiunto mondiale, all’Urss il 14,1 per cento,
alla Germania l’11,4, alla Gran Bretagna il 9,4, alla Francia il 4,5 e al
Giappone il 3,5 per cento.
C’è stato il sorpasso della
Cina sugli Stati Uniti. In termini quantitativi. E come potenziale – come
Kissinger, “Sulla Cina”, scriveva dieci anni fa: “Per la prima volta l’America
si confronta con un paese che possiede capacità economiche comparabili e ha un
passato storico di grande abilità negli affari internazionali”.
La leadership produttiva di
Pechino nel mercato mondiale è confermata dalle esportazioni industriali. La Cina
è passata dal 4,7 per cento del totale dell’export mondiale nel 2000 al 18 per
cento nel 2019. Più della Ue, che aveva in precedenza il record, contenuta nel
15 per cento, il doppio degli Stati Uniti (9 per cento), tre volte il Giappone
(4,7 per cento). In parallelo sono esplosi gli investimenti diretti cinesi all’estero,
passando da 28 miliardi di dollari appena nel 2000 a 2.100 miliardi nel 2019,
il 6 per cento degli investimenti diretti all’estero nel mondo – l’11 per cento
aggiungendo i 1.750 miliardi di investimenti targati Hong Kong. È dunque cinese
la leadership mondiale dell’economia – è il “millennio cinese”?
È un miracolo certamente,
prodottosi in trent’anni o poco più, dopo la svolta impresa al partito
Comunista Cinese da Deng Hsiao Ping con le Quattro Modernizzazioni. Dalle
quali escluse nel 1989, col massacro di Tienanmen, quella politica. Ma è un
miracolo dalle quattro incognite. La prima è Tienanmen, la mancata
modernizzazione politica. La seconda è lo stesso “passato storico di grande
abilità” di Kissinger, che in effetti è rimasto inalterato, ma più che abile
(diplomatico, equilibrato) è imperiale (espansivo, esclusivo). Ed è “cinese”,
cioè Han: un rullo compressore delle altre nazionalità del subcontinente, già del
Tibet come ora degli Uiguri, e in quanto cinese sta macinando Hong Kng, vuole farlo presto di
Taiwan, e in prospettiva guarda alla terza Cina, a Singapore . La terza
incognita, alle altre due collegate, è che il miracolo cinese si fa a spese
dello sfruttamento di mezzo miliardo o poco meno di lavoratori, senza orario e
con paghe basse. E quasi tutti immigrati: nel dato ufficiale, dei censimenti
decennali, la popolazione urbana rsult a passata tra il 2000 e il 2020 da 456 a
902 milioni, cioè è raddoppiata, mentre quella rurale diminuiva in proporzione.
Immigrato significa, in base alle leggi del vecchio comunismo dirigistico
cinese, senza diritto alla residenza, e quindi alla sanità, agli assegni
familiari e all’edilizia pubblica (c’è mezzo miliardo di sans papiers in Cina, di “invisibili”).
La quarta incognita, e
quella che più conta, è che il miracolo cinese è dovuto alla globalizzazione.
La quale è una ricetta americana per la gestione degli affari, attraverso
delocalizzazione e licenze che garantissero maggiori e anzi enormi profitti.
Se, per ipotesi, contingenti e dazi dessero più profitti agli americani, grandi
e piccoli (i piccoli risparmiatori che beneficiano dei grandi dividendi), la
globalizzazione finirebbe. Senza difese, o possibilità di rappresaglie.
Le maggiori incognite sono
tuttavia quelle interne. La Cina è sempre un sistema politico comunista,
rigido, senza nessuna flessibilità o modernizzazione. Di cui nessuna teoria
politica avalla la durata, se non sotto coercizione. Lo sviluppo dell’economia
autoportante – cioè non quello “terzista”, del “lavoro per conto”, come è
all’80 per cento quello cinese - necessita di stabilità. Altrimenti i capitali
e i mercati scompaiono in un lampo.
Le stime precedenti hanno visto per un secolo gli Stati Uniti al primo posto, con percentuali diverse a seconda dei diversi calconi degli economisti, ma tutte elevate. Lo storico belga-svizzero dell’econmia del Terzo mondo Paul Bairoch ha cacoallo che nel 1913, prima della Grande Guerra, gli Stati Uniti producevano già il 32 per cento del valore aggiunto industriale mondiale, la Germania il 14,8 per cento, la Gran Bretagna il 13,6, la Russia l’8,2, la Francia il 6,1. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel 1937, lo storico tedesco-britannico dell’economia Hal Hillmann attribuisce agli Usa il 35,1 per cento del valore aggiunto mondiale, all’Urss il 14,1 per cento, alla Germania l’11,4, alla Gran Bretagna il 9,4, alla Francia il 4,5 e al Giappone il 3,5 per cento.
C’è stato il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti. In termini quantitativi. E come potenziale – come Kissinger, “Sulla Cina”, scriveva dieci anni fa: “Per la prima volta l’America si confronta con un paese che possiede capacità economiche comparabili e ha un passato storico di grande abilità negli affari internazionali”.
La leadership produttiva di Pechino nel mercato mondiale è confermata dalle esportazioni industriali. La Cina è passata dal 4,7 per cento del totale dell’export mondiale nel 2000 al 18 per cento nel 2019. Più della Ue, che aveva in precedenza il record, contenuta nel 15 per cento, il doppio degli Stati Uniti (9 per cento), tre volte il Giappone (4,7 per cento). In parallelo sono esplosi gli investimenti diretti cinesi all’estero, passando da 28 miliardi di dollari appena nel 2000 a 2.100 miliardi nel 2019, il 6 per cento degli investimenti diretti all’estero nel mondo – l’11 per cento aggiungendo i 1.750 miliardi di investimenti targati Hong Kong. È dunque cinese la leadership mondiale dell’economia – è il “millennio cinese”?
È un miracolo certamente, prodottosi in trent’anni o poco più, dopo la svolta impresa al partito Comunista Cinese da Deng Hsiao Ping con le Quattro Modernizzazioni. Dalle quali escluse nel 1989, col massacro di Tienanmen, quella politica. Ma è un miracolo dalle quattro incognite. La prima è Tienanmen, la mancata modernizzazione politica. La seconda è lo stesso “passato storico di grande abilità” di Kissinger, che in effetti è rimasto inalterato, ma più che abile (diplomatico, equilibrato) è imperiale (espansivo, esclusivo). Ed è “cinese”, cioè Han: un rullo compressore delle altre nazionalità del subcontinente, già del Tibet come ora degli Uiguri, e in quanto cinese sta macinando Hong Kng, vuole farlo presto di Taiwan, e in prospettiva guarda alla terza Cina, a Singapore . La terza incognita, alle altre due collegate, è che il miracolo cinese si fa a spese dello sfruttamento di mezzo miliardo o poco meno di lavoratori, senza orario e con paghe basse. E quasi tutti immigrati: nel dato ufficiale, dei censimenti decennali, la popolazione urbana rsult a passata tra il 2000 e il 2020 da 456 a 902 milioni, cioè è raddoppiata, mentre quella rurale diminuiva in proporzione. Immigrato significa, in base alle leggi del vecchio comunismo dirigistico cinese, senza diritto alla residenza, e quindi alla sanità, agli assegni familiari e all’edilizia pubblica (c’è mezzo miliardo di sans papiers in Cina, di “invisibili”).
La quarta incognita, e quella che più conta, è che il miracolo cinese è dovuto alla globalizzazione. La quale è una ricetta americana per la gestione degli affari, attraverso delocalizzazione e licenze che garantissero maggiori e anzi enormi profitti. Se, per ipotesi, contingenti e dazi dessero più profitti agli americani, grandi e piccoli (i piccoli risparmiatori che beneficiano dei grandi dividendi), la globalizzazione finirebbe. Senza difese, o possibilità di rappresaglie.
Le maggiori incognite sono tuttavia quelle interne. La Cina è sempre un sistema politico comunista, rigido, senza nessuna flessibilità o modernizzazione. Di cui nessuna teoria politica avalla la durata, se non sotto coercizione. Lo sviluppo dell’economia autoportante – cioè non quello “terzista”, del “lavoro per conto”, come è all’80 per cento quello cinese - necessita di stabilità. Altrimenti i capitali e i mercati scompaiono in un lampo.
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