I Diavoli del cardinale dietro gli untori
Il
cardinale, spiega Armando Torno, che ha ripescato la memoria, l’ha tradotta e cura
l’edizione, è diverso dall’agiografia che ne fa Manzoni nel romanzo. Un intellettuale,
non ha altri interessi, non politici, nemmeno familiari, autore di scritture
sterminate, di cui non si riesce a stabilire una bibliografia accurata, promotore
della Biblioteca Ambrosiana, teorico del “museo”, ma quanto succube del cospirazionismo,
che pure critica. Critica la teoria dei “Principi” che vogliono avvelenare la
città, ma non quella degli untori. Lui personalmente, secondo la testimonianza
del “residente” di Venezia in una delle appendici con cui Torno arricchisce la
pubblicazione, ha ordinato la tortura per alcuni “hostiarii” e chierici che
avrebbero unto “le cappelle, et le sedie dei canonici nel duomo”. E degli
untori che sotto tortura non confessano ipotizza che sia il Diavolo a
impedirglielo.
Lo
stesso Ripamonti, “La peste di Milano del 1630”. cui Manzoni si rifà, non conoscendosi
all’epoca questa testimonianza diretta del cardinale, di cui Torno include tra
le appendici parte del cap. III, lo testimonia: gli untori non erano una
diceria. Nel magistero del cardinale del resto si contano una decina di processi
alle streghe.
Il
memoriale, qui riprodotto in originale e in traduzione, è uno degli ultimi
scritti del cardinale, se non l’ultimo. È vivace, anche troppo. Pieno di casi
specifici, di buon effetto narrativo. Della peste Federico Borromeo ha una
concezione tutto sommato realista, dei contagi se non dell’infezione. Critica
le autorità (perdute nell’ipotesi cospirazionista… ), gli assembramenti, i
tanti involontari depistaggi, si direbbe oggi, comprese le pozioni miracolose. Ma,
nel quadro della punizione divina, sono i Diavoli che alimentano il contagio –
con gli untori ci sono i monatti, qui non nominati così ma rappresentati come
poi in Manzoni, e anche in misura pù raccapricciante: povera gente, soprattutto
del contado, che si curava dei morti per spogliarli.
Fulmineo
il racconto che, in versione travisata, sarebbe servito a Camus per uno degli episodi
de “La peste”, sugli scettici: il ballo dei milanesi al cimitero, dove finiranno
per tornare poi tutti morti. No, la storia è in sei righe a p. 81 della traduzione,
cinque nel’oroginale latino, alla fine del cap. 6: “Nel sacro giorno dell’Ascensione
in quel quartiere della città che si chiama Porta Tosa alcuni dissoluti
ballavano in qualche modo con atteggiamento di insolente scherzosità. Accadde che
la sera tutti quelli furono trovati contaminati dalla peste e portati via entro
i recinti del lazzaretto; lì furono tutti privati della vita”. E chi sa
qualcosa di Porta Tosa ricorda che essa raffigurava una dona che si radeva il pube
– una prostituta, la moglie del Barbarossa, una imperatrice bizantina che non
volle aiutare Milano contro il Barbarossa?
Una
lettera del residente della Serenissima il “primo gennaro 1630” attesta che il
clero ambrosiano si oppose, con successo, alla raccomandazione del cardinale di
fare la quaresima, durante la peste, “all’uso Romano”. Cioè nella penitenza per
tutti i quaranta giorni dela quaresima, invece che saltuariamente.
Torno
spiega l’origine e il lungo travaglio del recupero, e arricchisce il testo, in
originale e in traduzione, di alcune lettere del cardinale nei giorni della
peste, di un estratto del Ripamonti, delle lettere del residente veneziano, di
alcune pagine della “Vita di Federigo Borromeo” di Biagio Guenzati, e delle “Preghiere
a Gesù” disposte per l’occasione dal cardinale.
Federico
Borromeo, La peste di Milano, La
Vita Felice, pp. 256 € 13,50
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