giovedì 8 luglio 2021

I Diavoli del cardinale dietro gli untori

Il cardinale, spiega Armando Torno, che ha ripescato la memoria, l’ha tradotta e cura l’edizione, è diverso dall’agiografia che ne fa Manzoni nel romanzo. Un intellettuale, non ha altri interessi, non politici, nemmeno familiari, autore di scritture sterminate, di cui non si riesce a stabilire una bibliografia accurata, promotore della Biblioteca Ambrosiana, teorico del “museo”, ma quanto succube del cospirazionismo, che pure critica. Critica la teoria dei “Principi” che vogliono avvelenare la città, ma non quella degli untori. Lui personalmente, secondo la testimonianza del “residente” di Venezia in una delle appendici con cui Torno arricchisce la pubblicazione, ha ordinato la tortura per alcuni “hostiarii” e chierici che avrebbero unto “le cappelle, et le sedie dei canonici nel duomo”. E degli untori che sotto tortura non confessano ipotizza che sia il Diavolo a impedirglielo.
Lo stesso Ripamonti, “La peste di Milano del 1630”. cui Manzoni si rifà, non conoscendosi all’epoca questa testimonianza diretta del cardinale, di cui Torno include tra le appendici parte del cap. III, lo testimonia: gli untori non erano una diceria. Nel magistero del cardinale del resto si contano una decina di processi alle streghe.
Il memoriale, qui riprodotto in originale e in traduzione, è uno degli ultimi scritti del cardinale, se non l’ultimo. È vivace, anche troppo. Pieno di casi specifici, di buon effetto narrativo. Della peste Federico Borromeo ha una concezione tutto sommato realista, dei contagi se non dell’infezione. Critica le autorità (perdute nell’ipotesi cospirazionista… ), gli assembramenti, i tanti involontari depistaggi, si direbbe oggi, comprese le pozioni miracolose. Ma, nel quadro della punizione divina, sono i Diavoli che alimentano il contagio – con gli untori ci sono i monatti, qui non nominati così ma rappresentati come poi in Manzoni, e anche in misura pù raccapricciante: povera gente, soprattutto del contado, che si curava dei morti per spogliarli.
Fulmineo il racconto che, in versione travisata, sarebbe servito a Camus per uno degli episodi de “La peste”, sugli scettici: il ballo dei milanesi al cimitero, dove finiranno per tornare poi tutti morti. No, la storia è in sei righe a p. 81 della traduzione, cinque nel’oroginale latino, alla fine del cap. 6: “Nel sacro giorno dell’Ascensione in quel quartiere della città che si chiama Porta Tosa alcuni dissoluti ballavano in qualche modo con atteggiamento di insolente scherzosità. Accadde che la sera tutti quelli furono trovati contaminati dalla peste e portati via entro i recinti del lazzaretto; lì furono tutti privati della vita”. E chi sa qualcosa di Porta Tosa ricorda che essa raffigurava una dona che si radeva il pube – una prostituta, la moglie del Barbarossa, una imperatrice bizantina che non volle aiutare Milano contro il Barbarossa?
Una lettera del residente della Serenissima il “primo gennaro 1630” attesta che il clero ambrosiano si oppose, con successo, alla raccomandazione del cardinale di fare la quaresima, durante la peste, “all’uso Romano”. Cioè nella penitenza per tutti i quaranta giorni dela quaresima, invece che saltuariamente.
Torno spiega l’origine e il lungo travaglio del recupero, e arricchisce il testo, in originale e in traduzione, di alcune lettere del cardinale nei giorni della peste, di un estratto del Ripamonti, delle lettere del residente veneziano, di alcune pagine della “Vita di Federigo Borromeo” di Biagio Guenzati, e delle “Preghiere a Gesù” disposte per l’occasione dal cardinale.  
Federico Borromeo,
La peste di Milano, La Vita Felice, pp. 256 € 13,50

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