La Calabria vittima di se stessa
La
Calabria quale era e quale è – come se si fosse fermata a settant’anni fa. Il
denso volume è il reprint, voluto da Manfredi e Sergi nel 1994, curato
dall’Editoriale Bios a Cosenza, e non più purtroppo in circolazione, del numero
storico che la rivista fiorentina di Piero Calamandrei dedicò nel 1950 alla Calabria.
Una riedizione quindi tal quale – compreso l’errore di stampa in copertina, che
reca Gherard Rohlfs invece di Gerhard. Con saggi, a leggerli uno per uno, tutti
pensati, una cinquantina di contributi di nomi di primo piano, scrittori e
studiosi. Calabresi: Alvaro, Répaci, Perri, La Cava, Zappone tra gli scrittori,
Raffaele Corso, Umberto Bosco, Pietro Mancini, Fausto Gullo, Gaetano Cingari,
Giuseppe De Stefano. E non: gli scrittori Luigi Luisi, Giuseppe Berto, Renata
Viganò, George Gissing (presentato da Pietro De Logu), i grandi meridionalisti Zanotti
Bianco, Isnardi, Rossi Doria, studiosi di varie discipline, Rohlfs, Luigi
Firpo, Muscetta, Pugliese Carratelli, Gabriele Pepe et al. .
Celebre
l’incipit del primo intervento, “L’animo del calabrese”, di Corrado Alvaro: “La
Calabria, come non rappresenta un’unità linguistica, non rappresenta neppure un’unità
etnica”. Una Calabria tante Calabrie, anche nella morfologia del territorio. E
questo è tanto più vero oggi, facendo per esempio il raffronto tra l’alto
Cosentino attorno a Sibari, una plaga semidesertica paludosa che oggi è un
giardino, di primizie e di specialità, e la piana di Gioia Tauro, che era un
giardino di agrumeti e oliveti e oggi vive di debiti e caporalato.
Un
numero doppio che diventò quadruplo. C’era molto da dire. Che impressiona per
la sua “attualità”. Girando e rigirando il quadro è sempre quello – la frittata
è sempre quella: i problemi sono gli stessi, i ritardi e le difficoltà pure, e
soprattutto il punto di vista. Una regione, un mondo, che si connota sempre
come speciale, mentre è in tutto eguale al resto del mondo, Italia compresa. Ed
è questo probabilmente il suo limite. Testimoniato da qualche decennio dalla
rinuncia alla politica – che anche l’Italia ha fatto e fa, ma con altra furbizia.
Dalla rinuncia in sostanza a essere, a prendersi per i quattro capi e darsi una
regolata, come dice il toscano, una strigliata. Ci sono, molti, calabresi a
Roma, Milano e nel resto del mondo che se la cavano come gli altri, solo in
Calabria è – sarebbero – un problema. Non è un problema di cromosomi.
Il
nome beneaugurante – Calabria è abbondanza - che diventa un fardello. Già a
nominarla, sul piano linguistico. C’è qualcosa che non funziona in questa scarsa
(svogliata, stizzita, ignorante?) percezione di sé, distruttiva. La rivista
fiorentina non se la sentiva di dirlo, ma lo diceva indirettamente, chiudendo
la presentazione dello speciale con Carducci – che pure a Firenze non era amato:
“Quanta gloria e quanta bassezza\ e
quanto debito per l’avvenire”.
Gianfranco
Manfredi-Pantaleone Sergi (a cura di), Il
Ponte. La Calabria quale fu e qual è
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