L’unità lasciata ai prefetti, da ridere
Camilleri
storico, come gli piaceva, ma aristofanesco, da risate sguaiate. Un racconto non
suo, non di sua invenzione, poiché “si basa in gran parte su fatti realmente accaduti”.
Anzi, raccontati dallo stesso malcapitato protagonista, Enrico Falconcini, “Cinque
mesi di prefettura in Sicilia”. Un signore
di Pescia in Toscana nominato prefetto a Montelusa-Agrigento. Ignorante e incapace,
come si addiceva ai funzionari del neonato Regno d’Italia, che accumula
disastri su disastri e non se ne rende nemmeno conto – dopo cinque mesi il
governo deve sostituirlo.
Camilleri
sceglie la vena comica per narrarne le gesta. Ma pone ancora di più la
necessità di una vera storia dell’unificazione italiana, fuori dalle polemiche
giornalistiche.
Si
ride dall’inizio alla fine. Con una nota in ultimo di come le cose potevano
andare meglio. È il 1862, Garibaldi prova dalla Sicilia a risalire la penisola
per il suo “Roma o morte”. Lo stivale di Garibaldi è quello che il suo
aiutante Ricci-Gramitto, un siciliano alto
e energico, gli ha levato quando fu ferito sull’Aspromonte. Ricci-Gramitto se
lo porta a casa, e ci organizza sopra manifestazioni patriottiche. Alle feste partecipa
anche la sua figliola, che s’invaghisce del figlio di un industriale dello
zolfo, Pirandello, se lo sposerà, e sarà la madre di Luigi Pirandello.
Andrea
Camilleri, Lo stivale di Garibaldi, “la
Repubblica”, pp. 45, gratuito col quotidiano
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