sabato 24 luglio 2021

L’unità lasciata ai prefetti, da ridere

Camilleri storico, come gli piaceva, ma aristofanesco, da risate sguaiate. Un racconto non suo, non di sua invenzione, poiché “si basa in gran parte su fatti realmente accaduti”. Anzi, raccontati dallo stesso malcapitato protagonista, Enrico Falconcini, “Cinque mesi di prefettura  in Sicilia”. Un signore di Pescia in Toscana nominato prefetto a Montelusa-Agrigento. Ignorante e incapace, come si addiceva ai funzionari del neonato Regno d’Italia, che accumula disastri su disastri e non se ne rende nemmeno conto – dopo cinque mesi il governo deve sostituirlo.
Camilleri sceglie la vena comica per narrarne le gesta. Ma pone ancora di più la necessità di una vera storia dell’unificazione italiana, fuori dalle polemiche giornalistiche.
Si ride dall’inizio alla fine. Con una nota in ultimo di come le cose potevano andare meglio. È il 1862, Garibaldi prova dalla Sicilia a risalire la penisola per il suo “Roma o morte”. Lo stivale di Garibaldi è quello che il suo aiutante  Ricci-Gramitto, un siciliano alto e energico, gli ha levato quando fu ferito sull’Aspromonte. Ricci-Gramitto se lo porta a casa, e ci organizza sopra manifestazioni patriottiche. Alle feste partecipa anche la sua figliola, che s’invaghisce del figlio di un industriale dello zolfo, Pirandello, se lo sposerà, e sarà la madre di Luigi Pirandello.       
Andrea Camilleri,
Lo stivale di Garibaldi, “la Repubblica”, pp. 45, gratuito col quotidiano

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