domenica 4 luglio 2021

Philip Dick, il romanzo di Carrère

Carrère esordiva nel 1993 nel genere biografia non documentata di uomini che avrebbero potuto esere illustri con l’allora semisconosciuto Philip K. Dick. Intraprendendo finalmente la strada del successo.
Scorrendo nuovamente questa sua memoria di Dick si festa colpiti dalle somiglianze con lo stesso Carrère poi emerse. Nessuno studio preliminare del soggetto: il racconto è basato sulla lettura di una biografia di Dick, quella di Lawrence Sutine, “Divine invasioni”: “Li dentro c’erano i fatti di cui avevo bisogno e che non avrei potuto trovare da solo senza andare in California”, spiega ora, soldi e tempo sprecati. Dall’“eccellente lavoro di Sutine” ha così preso venti pagine di appunti, eventi e date, un quaderno che ha poi messo da parte senza mai più aprirlo, e ha scritto il romanzo di Dick. Ossessionato - lui non lo dice ma noi possiamo – dal Dick che definisce “monogamo seriale”, un altro se stesso insomma, per una sorta di imprinting degli uomini nati a cavaliere della guerra, dominati da un SuperIo che per una scopata pensava di dover mettere in gioco tutta la vita, specie del partner.
Lui, Carrère, c’era arrivato già a trent’anni, con due romanzi e qualche moglie. E nessuna voglia più. Nemmeno di scrivere. Un blocco che il suo agente letterario gli consigliò di superare dedicandosi al genere biografia – così la vulgata voluta da Carrère per dire i suoi libri più fortunati, Dick, Limonov “Vite che non sono la mia” (la cognata dell’epoca che moriva di tumore), “L’avversario” (Jean-Claude Ronad, che per nascondere i debiti ha ucciso i genitori, la moglie e i figli), e un po’ di Russia – o di Carrère in Russia.
Carrère ama molto il racconto di se stesso trasposto sotto altre spoglie. E così dice Dick “il Dostoevskij del nostro tempo”. Solido alla rilettura, e quasi filosofico: il romanziere dell’epoca, degli “anni ruggenti” postbellici. Un narratore visionario, di un tempo disarticolato. Invece di un futuro ipotetico, scrittore di un altro passato: un’altra storia, un’altra realtà, che si sottrae, si trasforma, si maschera – inafferrabile. Con singolari anticipazioni nei romanzi di tutta le tematiche commerciali relative oggi alla rete: intrusioni, furto dei dati, la privacy come un affare. Profeta anzi dell’iperrealtà. E inventore del falso falsificatore.
In un certo senso è vero: Dick, benché farraginoso, si può anche leggere come un fenomenologo. Il più coerente e approfondito anzi tra i fenomenologi, con i continui piani sommersi che porta in superficie, dei fenomeni spirituali e anche fisici – giunse a diagnosticare al figlioletto Christopher un’ernia strozzata che i medici non vedevano, dai sintomi.
Ma scrivava alla disperata – questo Carrère nojn lo dice. Per una vita problematica, materialmemte, e  psicologicamente. Per scrivere si aiutava con ogni sorta di eccitante, dalla anfetamine “in su”. Al costo di un ricorrente sentimento di inadeguatezza negli intervalli, e quasi di depressione. E sempre ricaricato a scrivere da donne impietose: la madre, le tante mogli, relazioni che da monogamo riteneva di dover subito santificare, e da un paio di amiche determinanti, anche loro conviventi ma senza rapporti intimi – una lo convertì al cattolicesimo, un’altra alle droghe pesanti. E “come sempre quando si sentiva colpevole, s’inteneriva sul suo proprio conto”, si ricaricava e ripartiva. Con attacchi peraltro ricorrenti di paranoia, in cui tutte le sue debolezze erano colpa di qualcuno, l’Fbi al tempo del maccarthysmo, la Cia al tempo della guerra fredda, o la Russia, e un paio delle mogli - una la fece ricoverare in manicomio. O di schizofrenia. Questa anzi costante, nel sottofondo, nella scissione costante della realtà – informazione, visione, persone, anche vicine, futuro, presente, passato.
Effetto anche, probabilmente, di un’esistenza breve e dura. La gemellina morta di pochi giorni per l’inettitudine della madre. La madre solitaria, avventurosa e castratrice. Il padre ridotto alla maschera antigas degli arruolati della prima guerra mondiale e poi perduto – sarà quello che lo seppellisce. Il maccarthysmo, con l’Fbi alle calcagna. Nixon e il Watergate. La Cia e i Russi. E l’incredibile era “Lucy in the Sky”, Lsd, anni 1960. Dopo un’adolescenza tutta musicale – al punto che, con la madre, era in grado di riconoscere qualsiasi brano di musica classica dalle prime note. A Oakland, già negli anni 1950 “il centro del mondo” delle libertà”, a partire dall’abbigliamento, e dal fumo. Scrittore per caso, ma subito furioso: subito all’esordio, prima di anfetamine, Lsd, eroina, alcol, e altri corroboranti. Carrère-Sutine censisce un’ottantina di racconti, sette romanzi di fantascienza, e almeno undici romanzi “seri”, mainstream, tutti rifiutati (un giorno arrivarono quindici rifiuti), fino che Dick non ne coltivò più l’ambizione. Sposato già da ragazzo, lo sarà un’altra mezza dozzina di volte, talvolta con un figlio. Sopravvissuto a vari suicidi. Finché in ultimo, benché diviso tra furori e cliniche psichiatriche, diventa amministratore del condominio dove ha comperato casa.
Una sorta di alter-biografia: Carrère sente Dick suo “eguale”, da cultore del genere, da ragazzo e poi da scrittore - autore di almeno un remake da Mattheson, “La Moustache”. Il titolo è la traduzione dell’originale, una citazione da “Ubik”, fra i racconti più citati di Dick.
Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi, pp. 351 € 19

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