Philip Dick, il romanzo di Carrère
Carrère esordiva nel 1993 nel
genere biografia non documentata di uomini che avrebbero potuto esere illustri
con l’allora semisconosciuto Philip K. Dick. Intraprendendo finalmente la strada
del successo.
Scorrendo nuovamente questa sua
memoria di Dick si festa colpiti dalle somiglianze con lo stesso Carrère poi
emerse. Nessuno studio preliminare del soggetto: il racconto è basato sulla
lettura di una biografia di Dick, quella di Lawrence Sutine, “Divine
invasioni”: “Li dentro c’erano i fatti di cui avevo bisogno e che non avrei
potuto trovare da solo senza andare in California”, spiega ora, soldi e tempo
sprecati. Dall’“eccellente lavoro di Sutine” ha così preso venti pagine di appunti,
eventi e date, un quaderno che ha poi messo da parte senza mai più aprirlo, e ha
scritto il romanzo di Dick. Ossessionato - lui non lo dice ma noi possiamo –
dal Dick che definisce “monogamo seriale”, un altro se stesso insomma, per una
sorta di imprinting degli uomini nati a cavaliere della guerra, dominati da un
SuperIo che per una scopata pensava di dover mettere in gioco tutta la vita,
specie del partner.
Lui, Carrère, c’era arrivato già
a trent’anni, con due romanzi e qualche moglie. E nessuna voglia più. Nemmeno di
scrivere. Un blocco che il suo agente letterario gli consigliò di superare dedicandosi
al genere biografia – così la vulgata voluta da Carrère per dire i suoi libri
più fortunati, Dick, Limonov “Vite che non sono la mia” (la cognata
dell’epoca che moriva di tumore), “L’avversario” (Jean-Claude Ronad, che per
nascondere i debiti ha ucciso i genitori, la moglie e i figli), e un po’ di Russia – o di Carrère in Russia.
Carrère ama molto il racconto di
se stesso trasposto sotto altre spoglie. E così dice Dick “il Dostoevskij del
nostro tempo”. Solido alla rilettura, e
quasi filosofico: il romanziere dell’epoca, degli “anni ruggenti” postbellici. Un
narratore visionario, di un tempo disarticolato. Invece di un futuro ipotetico,
scrittore di un altro passato: un’altra storia, un’altra realtà, che si
sottrae, si trasforma, si maschera – inafferrabile. Con singolari anticipazioni
nei romanzi di tutta le tematiche commerciali relative oggi alla rete: intrusioni,
furto dei dati, la privacy
come un affare. Profeta anzi dell’iperrealtà. E inventore del falso
falsificatore.
In un certo senso è vero: Dick, benché farraginoso, si può anche
leggere come un fenomenologo. Il più coerente e approfondito anzi tra i
fenomenologi, con i continui piani sommersi che porta in superficie, dei
fenomeni spirituali e anche fisici – giunse a diagnosticare al figlioletto
Christopher un’ernia strozzata che i medici non vedevano, dai sintomi.
Ma scrivava alla
disperata – questo Carrère nojn lo dice. Per una vita problematica,
materialmemte, e psicologicamente. Per
scrivere si aiutava con ogni sorta di eccitante, dalla anfetamine “in su”. Al
costo di un ricorrente sentimento di inadeguatezza negli intervalli, e quasi di
depressione. E sempre ricaricato a scrivere da donne impietose: la madre, le
tante mogli, relazioni che da monogamo riteneva di dover subito santificare, e
da un paio di amiche determinanti, anche loro conviventi ma senza rapporti
intimi – una lo convertì al cattolicesimo, un’altra alle droghe pesanti. E
“come sempre quando si sentiva colpevole, s’inteneriva sul suo proprio conto”,
si ricaricava e ripartiva. Con attacchi peraltro ricorrenti di paranoia, in cui
tutte le sue debolezze erano colpa di qualcuno, l’Fbi al tempo del maccarthysmo,
la Cia al tempo della guerra fredda, o la Russia, e un paio delle mogli - una
la fece ricoverare in manicomio. O di schizofrenia. Questa anzi costante, nel
sottofondo, nella scissione costante della realtà – informazione, visione,
persone, anche vicine, futuro, presente, passato.
Effetto anche,
probabilmente, di un’esistenza breve e dura. La gemellina morta di pochi giorni
per l’inettitudine della madre. La madre solitaria, avventurosa e castratrice.
Il padre ridotto alla maschera antigas degli arruolati della prima guerra
mondiale e poi perduto – sarà quello che lo seppellisce. Il maccarthysmo, con
l’Fbi alle calcagna. Nixon e il Watergate. La Cia e i Russi. E l’incredibile
era “Lucy in the Sky”, Lsd, anni 1960. Dopo un’adolescenza tutta musicale – al
punto che, con la madre, era in grado di riconoscere qualsiasi brano di musica
classica dalle prime note. A Oakland, già negli anni 1950 “il centro del mondo”
delle libertà”, a partire dall’abbigliamento, e dal fumo. Scrittore per caso,
ma subito furioso: subito all’esordio, prima di anfetamine, Lsd, eroina, alcol,
e altri corroboranti. Carrère-Sutine censisce un’ottantina di racconti, sette
romanzi di fantascienza, e almeno undici romanzi “seri”, mainstream, tutti rifiutati (un giorno
arrivarono quindici rifiuti), fino che Dick non ne coltivò più l’ambizione.
Sposato già da ragazzo, lo sarà un’altra mezza dozzina di volte, talvolta con
un figlio. Sopravvissuto a vari suicidi. Finché in ultimo, benché diviso tra
furori e cliniche psichiatriche, diventa amministratore del condominio dove ha
comperato casa.
Una sorta di
alter-biografia: Carrère sente Dick suo “eguale”, da cultore del genere, da
ragazzo e poi da scrittore - autore di almeno un remake da
Mattheson, “La Moustache”. Il titolo è la traduzione dell’originale, una
citazione da “Ubik”, fra i racconti più citati di Dick.
Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti,
Adelphi, pp. 351 € 19
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