Sotto la Montagna - Th. Mann a raffica e il polpettone Europa
Il
sacerdote cattolico (qui elevato a gesuita, il cattolico causidico) quale
interlocutore dell’inquietudine - l’uomo di fede che tranquillamente litiga con
Dio è in Germania cattolico - è trovata di Goethe: benché pagano dichiarato di
formazione protestane, o forse per questo, Goethe ne fa il deuteragonista di “Conversazioni di profughi tedeschi”, il suo decameroncino attorno alle invasioni
napoleoniche.
Ci
sono molte novità, cioè letture a chiave, di questo che si vuole un capolavoro
di Th. Mann, ritradotto da Renata Colorni per una maggiore aderenza
all’originale manniano, ma questa non c’è. Sarebbe servita? Il racconto resta
lo stesso faticoso – questa “Montagna”, sia essa incantata oppure magica, per
quanto di settecento pagine, è un racconto, non c’è romanzo, non c’è trama,
malgrado le tante morti, spesso però suicide, troppo facili (il suicidio è
artificio facile: restando inspiegabile, il romanziere non lo deve rendere
plausibile). Senza succo, cioè, alla fine.
La
riedizione è succosa ma per il paratesto, se a uno piace la filologia. È il doppio
del racconto, per le note, il commento e
l’introduzione di Luca Crescenzi, e il saggio di Michael Neumann che lo
accompagna.
Una
riedizione, dopo quella Corbaccio del 1965, con la traduzione di Ervino Pocar, che invita a una lettura a chiave, un po’
curiosa un po’ gossippara. Sappiamo dallo stesso Th. Mann che Leo Naphta,
gesuita, marxista, nato ebreo, è una parodia di György Lukács. Ma questo non ne
alleggerisce la lettura – né la fine, tra duelli e suicidi. L’italiano Lodovico
Settembrini, che duella con Naphta interminabilmente, non è il Settembrini patriota
che ipotizzava Croce, ma “un carducciano” fervente, dell’inno a Satana,
massone, creato un giorno di settembre – anche questo non ne alleggerisce il
filosofare. Altri ce ne sono.
Un
racconto nato come un aneddoto, la visita di Th. Mann alla moglie in sanatorio
in Svizzera nel 1912. Ironico, sulle disgrazie dell’ipocondria, con cui il
malato più o meno immaginario infetta amici e congiunti. Meno romantico e più sarcastico della morte in agguato del precedente, fortunato, “Morte a Venezia”. Un racconto presto abbandonato, anche per il sopravvenire della guerra, e trasformato dopo la carneficina
in una sorta di ballata mortuaria – tra empiti erotici naturalmente, una madame
Chauchat (“fica calda” in francese nella lettura a chiave) – al balcone di un’Europa
ormai solo invisibile: non c’è panorama fuori dalle terrazze del sanatorio. L’aria
è claustrale, benché si ragioni quasi sempre all’aperto – la cura erano i bagni
di sole, l’aria “pura”
“La Montagna” come romanzo dell’ipocondria? La malattia che si
coltiva è una condanna per ogni altro su cui pesa, parente, innamorato, amico.
Si spiega che se ne possa fare gigantesca vendetta, con gli eletti confinati in
un sanatorio per reggia, e con un dottore per re: una scena grottesca, insopportabile,
di maschere. È anche, volendo, un teatrino dello psicologismo, fin-de-siècle. E
una micro rappresentazione dell’Europa? Un’agghiacciante – lunga, insistita,
irata – presa in giro: della sensibilità di fine Ottocento, o morbosità,
della estenuazione del romanticismo? Scritta dopo la carneficina. Una fin de partie.
Del romanticismo perenne, anche: introspezione, inerzia, culto del disordine e
del dolore, autogratificazione.
Tutto, insomma, e niente. Perché poche cose di Thomas Mann non
sono ironiche: i “Buddenbrook”, “Giuseppe”, “Morte a Venezia”, per quanto
melodrammatico – ma anche nei “Buddenbrook”, anche in “Giuseppe”, anche in
Tadzio…. Alcune volte è feroce. In “Sangue velsungo” per esempio. Qui nell’
“innamoramento” di Castorp – le donne, la malattia. O nelle cineserie dei
titoli: “Rispettabile annuvolarsi del volto”, “Zuffa dell’eternità (è
l’“innamoramento”) e luce improvvisa”… Th. Mann fa il verso all’ipocondria,
al romanticismo estenuato, per ridere del quale gli viene buono perfino Carducci,
e alla noia come arte, all’introspezione inerte. Di una “profondità di petto”,
se la tubercolosi si potesse dire in musica, cioè esterna.
Vent’anni dopo, scrivendone nel 1939, benché già profugo politico e
in temperie di guerra, tenterà di salvare il tutto battendo su questo tasto: un
concentrato di svariati mondi spirituali risucchiati dalla voluttà della morte.
Che non è falso: tutti quelli che entrano al sanatorio, sia pure per una visita
di poche ore, “hanno” una malattia. E (quasi tutti) in un modo o nell’altro finiscono per morirvi. Ma si
può dire anche al contrario: va, anche casualmente, al sanatorio chi è
“portato” alla malattia, e finisce per esempio suicida – ce ne sono, più di uno.
Ma Thomas Mann può non essere cosciente che ha ridicolizzato un mondo, con
ragli acutissimi e sberleffi anche troppo insistiti (per esempio l’“innamoramento”
di Castorp, il trickster, lo snodo
del folle dramma)?
Certo
è che Th. Mann recupera con questo polpettone il respiro europeo, dopo la
caduta nel basso, piccolo tedesco, piccolissimo, che lo aveva traviato con la
guerra. Dopo cioè le “Considerazioni di un impolitico”, di petty nationalism,
becero, berciante. Lui se ne è palesemente qui liberato, vuole dire, narratore compiaciuto
(da qui l’ironia), concionando sui destini con grande libertà, e con ampiezza di
riferimenti, meglio se incogniti, “trovati” – il lettore un po’ meno. Finisce
con un duello, fra il massone e il clericale, e un suicidio – si potrebbe dire
anche di chi, non è spoiling: non c’è
suspense, solo un po’ di confusione (più
di un po'?).
Prendendolo come un romanzo, cioè con una tela di fondo, e non
come un racconto, un aneddoto, una novella semiseria, sarebbe agghiacciante.
Perché tanta rabbia? E tanta ipocrisia? Il Grande Borghese, Th. Mann era
terribilmente in dissidio: col mondo che lo circondava, come spesso dice, e lo onorava, da decenni ormai, e
quindi, come si suol dire, al fondo con se stesso. Ma, se così è, per portare
le colpe di altri. Questa “storia ermetica”, nell’“addio” finale di Castorp, è
una resa dei conti con qualcosa che l’autore non riesce a liquidare, o non può.
Che non è la Germania – la difenderà anche contro gli Usa che l’avevano
ospitato esule e onorato. E non è se stesso, Thomas Mann è inscalfibile: lui è,
e solo lui, un Buddenbrook, un signore del “reale”, delle cose solide - o
meglio degli “uomini vestiti di nero” (“per porre una severa distanza fra sé e
le epoche nelle quali vivevano”), qui sotto i nomi di Castorp e Settembrini, il
conservatore e il rivoluzionario, entrambi tutti d’un pezzo.
O era lui così? Più positivo, quindi, che sarcastico. Una
curiosità resta la lettura seriosa che fa dell’Italia: era così l’Italia un
secolo fa? Una seconda curiosità è la ricorrenza di molti tempi agostiniani,
delle “Confessioni”: storia, tempo, memoria. Sarebbe stato più ovvio trattarli
alla maniera di Aristotele, “Fisica”, e più divertente, o di Platone, “Timeo”. Il problema è sempre quello: chi è Thomas Mann?
Una
edizione da biblioteca, certo. Ma meglio intonsa? Senza “chiavi” un polpettone
indigesto.
Thomas
Mann, La montagna magica, Meridiani,
pp. CLXXXIII + 1422, ril. € 80
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