skip to main |
skip to sidebar
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (462)
Giuseppe Leuzzi
Nel
grato ricordo del liceo a Sanremo, compagno di banco e di gruppo di Calvino, Scalfari
annota (“Io, Italo Calvino e l’Italia ferita del ‘43”): “Eravamo una dozzina.
Quasi tutti sanremesi. Un paio di Torino, io l’unico del Sud e infatti – prima
che la banda si formasse e io entrassi a farne parte – venivo chiamato
«Napoli»”. Scalfari nato a Civitavecchia, ginnasio al Mamiani, a Roma, di madre
laziale, di una famiglia di armatori, e di padre figlio di un notabile
calabrese, ma vissuto, per studi e lavoro, a Roma e altrove. Bastava il nonno,
paterno.
L’ombra
Viene
l’estate, giornate lunghe, sole caldo tre quarti del giorno, viene difficile spiegare
ai coinquilini del piano di sopra che le finestre del vano scale sono meglio
chiuse di giorno – di notte no, spalancate, ma di giorno chiuse, anche gli
scuri. Lui che è torinese ci starebbe – il meridionale per lui è un altro mondo,
e quindi lo incuriosisce. Lei no, è romana, non l’ha fatto da bambina, chiudere
le finestre, non l’ha fatto da ragazza, non lo farà mai. Ma, del resto, è
difficile anche in casa: a Firenze non c’è il culto dell’ombra, il cipresso
sarà diffuso per questo, l’unico albero che non fa ombra, e quindi l’ombra non
esiste – i meridionali si sa che fanno cose strane, e vanno compatiti, ma non
più di questo: c’è l’ombra nei quadri degli Uffizi, in piazza della Signoria, a
Boboli?
È
difficile questa nozione semplice: che bisogna aprire al sole d’inverno e
chiudere d’estate. Sembrerebbe ovvio, ma non è così. Ma non è questione di Nord
e Sud, anche se nei casi specifici sì: certi mondi non hanno l’ombra. Si viaggi
in Grecia, si troverà a ogni canto un po’ d’ombra per una sosta, una pausa, un
riposo, al guado del ruscello ma anche al tornante in montagna, in piazza,
spesso proprio il salice che ornava anche il Sud, ogni casa sperduta nella
campagna, ed è stato dismesso col boom, cinquant’anni fa, albero
altrimenti inutile - era, insieme col noce, segno che sotto c’era l’acqua,
anche nel posto più secco, e quindi pianta di buon augurio, ma non ci sono più
sorgenti, l’acqua arriva col tubo. Ovunque in
Grecia, anche nell’isola più petrosa, ci sarà sempre un po’ di ombra –
una tettoia, un lenzuolo stesso se non c’è naturale. Si faccia invece la Grecia
asiatica, quella che da un secolo giusto è Turchia, Efeso, Pergamo, Alicarnasso
(Bodrum), non si troverà mai un’ombra, a nessuna ora del giorno. Sono scomparse
anche le sorgenti, insieme con i greci di Turchia. E quindi l’albero frondoso che
si accompagna alla fonte umida, e accompagna il viaggiatore, il salice, il
platano, il frassino, l’olmo, il carrubo, il biancospino, anche, in difetto, un eucalipto. Ma non ci sono nemmeno i parchi
pubblici. E l’edilizia, privata e pubblica, l’urbanistica, i piani regolatori,
i piani paesaggistici, sono evidentemente fatti per escludere l’ombra. Non c’è il
culto degli alberi, e pazienza: i culti dendrici erano greci, e la Grecia va
cancellata, non da ora, anche da prima del presidente Erdogan. Ma anche le
strade, le piazze, i palazzi, sembrano cosruiti in maniera da non aggettare mai
ombra, a nessuna ora del giorno, in nessuna direzione. Che sembra impossibile
ma così è. L’ombra fa ombra, si direbbe in una freddura.
Franco
È
morto Franco Papitto, un amico di vent’anni, non più sentito da vent’anni. Da
quando, mortificato, lamentava problemi alla testa, lascito della commozione
cerebrale di cui era stato vittima, investito a Bruxelles mentre camminava sulle
strisce. Le nostre erano, dopo il cazzeggio d’obbligo fra calabresi, conversazioni
minute sull’Europa di Bruxelles, forse ora impegnative. Ero stato per dieci anni
o quasi il suo interlocutore quotidiano a “la Repubblica”.
Assunto
da Mario Pirani malgrado il suo passato turbolento in gioventù tra i
gruppuscoli, di destra e di destra estrema, come corrispondente da Bruxelles –
Pirani era l’unico europeista a “la Repubblica” in quegli anni e assolutamente
volle che, pur nel bilancio contenuto allora del quotidiano, Bruxelles fosse
sempre “in pagina” – Franco fu a lungo in rapporti freddi col servizio Esteri, ottimi
giornalisti evidentemente ma tutti ex di “Paese Sera” (anche questo sembrerà strano, ma il Pci è arrivato tardi a Bruxelles). Scriveva quindi quasi sempre
per una pagina di Economia Internazionale che curavo. Gradiva anche poter
discutere gli argomenti di Bruxelles, di cui era miglior conoscitore (in
concorrenza ogni giorno con Arturo Guatelli, ma presto senza, Guatelli si fece
senatore Dc nel 1979), con qualcuno che potesse pesarli. Sempre generoso del resto,
di tutto, consigli (anche culinari) e dritte. Si potrebbe portare a esempio,
anche se non gli sarebbe piaciuto, di come l’Europa, l’idea d’Europa e la
stessa quotidianeità di Bruxelles, possa
fare bene agli Europei.
Il Gotha
Si
condannano a Reggio Calabria un Paolo Romeo, avvocato, a venticinque anni di
carcere, e numerosi altri a pene minori, per avere fatto di Reggio Calabria “un
laboratorio criminale a cui tutta la ‘ndrangheta del mondo”, che notoriamente
domina il mondo, fra tutte le organizzazioni mafiose, “è chiamata ad ispirarsi”.
E per aver concepito, con un altro avvocato, Giorgio De Stefano, non della famiglia mafiosa omonima?, già condannato
in rito abbreviato, una “divinità criminale a due teste”, per controllare la
politica, l’economia, la società, “e perfino l’associazionismo”, scrive
Candito, la corrispondente reggina di “la Repubblica”. Una “cupola”, scrive
sempre Candito riassumendo la sentenza, “in grado di mettere in atto un piano eversivo
dell’ordine democratico e colonizzare le istituzioni”. Perbacco. E un piano così va solo in poche righe, nella pagina
giudiziaria?
Dispiace
per don Pino Strangio, il parroco di San Luca, l’unico conoscente tra i condannati.
Ma questo Romeo, che deve avere sui settant’anni, non è nelle cronache da almeno mezzo secolo, già
condannato per “associazione di stampo mafioso” e per “concorso esterno”, poi
imputato in un processo su quattro, o su tre, attentati a Reggio, fascista
facinoroso, legato a Freda, quello delle bombe di piazza Fontana, che lo disse
anche massone in uno dei suoi tanti processi, del quale si è vantato di avere
favorito la latitanza (“addirittura passeggiavamo su corso Garibaldi”, la via
centrale di Reggio, “un giorno gli presentai il capo della Digos locale”), tra
i difensori di Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas quando fu
accusato di golpe, nel 1970, poi “pacciardiano”, quando l’ex ministro
repubblicano Pacciardi si proponeva, quale comandante in petto dell’organizzazione Gladio, garante dell’ordine
repubblicano, per un paio d’anni deputato socialdemocratico, con approcci abortiti
a Pannella? Un fregoli. “Era il Dio della ‘ndrangheta e della politica” lo dice
il neo pentito Sebastiano Vecchio, “Seby”, altro avvocato, con un’esperienza in
Polizia, per conto dei mafiosi, assessore comunale a Reggio per Forza Italia,
in disgrazia da quando è stato eliminato il clan milanese-iberico dei Serraìno, coi
ricchissimi proventi della droga, ora attivista Pd? Ma non è una cosa seria?
L’inchiesta
che ha portato Romeo alla condanna s’intitola Gotha. Il gotha degli avvocati.
Meridionali sul
Viso e sul Bianco
“Quintino
Sella scalò il Viso con un collega (politico) calabrese, poi fondò il Cai”,
Paolo Rumiz, “È Oriente”,190. Il rifugio a suo nome sul Monviso, a 2.640 m., lo
ricorda. Nell’agosto 1963 a Torino il caldo era
insopportabile, e Quintino Sella decide con Giovanni Barracco di salire
sul Monviso. Sella ha solo 36 anni, ma è solidamente barbuto, e già ministro
delle Finanze nel governo postunitario di Rattazzi, il “servo di casa Savoia” (Spadolini).
Il Viso è il monte dei piemontesi – si chiama così, abbreviato, familiarmente a
Saluzzo. Ma era stato “violato” (scalato) due anni prima da due inglesi, Jacobs
e Mathews, nemmeno scalatori di professione – ma poi anche, nello stesso anno 1861
dai francesi Jean-Baptiste e Michel Croz di Chamonix, e ancora, l’anno dopo, da
un altro inglese, Francis Fox Tuckett, questi Grande Esploratore, che costituì
per l’impresa una spedizione.
Giovanni
Barracco, che di anni ne ha 34, non era esperto di montagna. Ma non si sottrasse. E con non grande
difficoltà fu il 12 agosto con Sella in cima al Viso. Il barone Barracco, di
Isola Capo Rizzuto, “il più ricco proprietario di tutta Italia” (François
Lenormant, l’assiriologo che viaggiò anche in Magna Grecia) – erediterà anche
per parte della madre, una Falcone Lucifero - aveva 34 anni. Era stato
consigliere comunale nella Napoli di Garibaldi, e nel 1861 deputato al primo
Parlamento italiano. Fu un parlamentare molto attivo, dal 1886 senatore del Regno,
in chiave di protezione e sviluppo del territorio, si direbbe oggi – per questo
(ma non si sa) avrebbe rifiutato nel 1869 la proposta di Giovanni Lanza di fargli
da ministro degli Esteri. Fu all’origine del tributo Pro Calabria. Ma soprattutto
fu un collezionista, di arte antica, per uno sviluppato interesse archeologico.
Le collezioni poi ordinò in casa, nei vasti saloni in via del Corso - oggi
Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco.
Quintino
Sella in realtà non era nuovo all’alpinismo. Fu anche il primo italiano a scalare
il Monte Rosa. Fu sua l’idea di imitare gli inglesi con il Club Alpino
Italiano. A lui wikipedia ascrive anche la prima scalata italiana al Monte
Bianco. No, il primo italiano sul Bianco fu il marchese Imperiale di Napoli,
mazziniano fervente, il 29 agosto 1840 – sarà per questo, anche per questo,
senatore del Regno sabaudo.
Milano
Non passa
giorno da quando c’è il virus, un anno e mezzo, senza il supplizio di Burioni,
il virologo di Milano. Che palesemente si diverte a spese nostre, ma ogni
giorno ce n’ha una e non ce la risparmiano. Se Burioni fosse stato virologo a
Napoli? Se fosse stato un normale, che non s’inventa la cazzata?
Ciò non vuole
dire che a Milano contano le cazzate, al contrario. Milano se le inventa per impapocchiare
il prossimo. Ci guadagnerà.
“Gli animi
dei lombardi”, annota il cardinale Federigo Borromeo nel suo diario “La peste
di Milano, “sono coraggiosi e ardenti e ne danno testimonianza i ricordi del passato e le guerre combattute
per tanti anni. D’altra parte sono anche orgogliosi e superbi nei confronti dei
poteri, insofferenti delle offese e vivono molto a fatica lontano dalla loro
città”.
Per la
carestia, che precedette la peste del 1630, molti si dovettero ricoverare in città,
nota il cardinale, “avviliti”: “S’erano nutriti di cortecce d’alberi, e una
porzione di crusca era per loro cibo squisitissimo”. Succederà un secolo fa per
gli abitanti di Africo senza più casa, per alluvione o terremoto, secondo la
testimonianza di Corrado Alvaro nella conferenza sulla Calabria che tenne al
Lyceum di Firenze nel 1929, che furono rinvenuti nelle campagne emiliane nutriti
di paglia e fieno.
Il cardinale
Borromeo s’interroga a un certo punto sulla “propensione a fare affari di questo
popolo”, i milanesi. Che, pur “non avendo né un mare vicino né un fiume
navigabile”, li accrescono in continuazione. E da soli, “tutti originari del
posto, non certo immigrati e stranieri o chiamati da fuori quale è più o meno
la moltitudine che affolla le città italiane”. Il leghismo ha radici, il “crogiolo”
è per stare ala moda.
Il segreto
dei lombardi, insiste il cardinale? La costanza: “Insistono nelle imprese con
costanza e con una certa ostinazione fino alla conclusione e tutto quanto hanno
cominciato lo conducono a fine”. Questo, osserva, richiama “abbastanza i
caratteri dei tedeschi, dei quali è nota la perseveranza nei lavori iniziati”.
Non esclusa
la oneupmanship, continua il cardinale: “Qualunque cosa vedano eseguita,
la imitano sia facilmente sia
avidamente”: E “non vogliono essere superati e vinti da altri in nessuna
attività”.
Fu terribile
con gli “untori”, anche più di quanto aveva saputo Manzoni, non aliena ai
linciaggi. In appendice a “La peste di Milano” del cardinale Borromeo, Armando
Torno pubblica alcune lettere del “residente” di Venezia a Milano. In una si
legge: “Doi huomini che andavano per Milano feriti dalla peste, senza palesarla,
sono stati hieri decapitati ad esempio di altri; stava la sentenza che fossero
archibugiati vivi, ma per grazia hanno ottenuto di morire come predetto”.
leuzzi@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento