giovedì 19 agosto 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (464)

Giuseppe Leuzzi

Passa l’ambulante sulla spiaggia che vende biancheria, con la litania: “Lenzuola matrimoniali”, pausa, “lenzola ddu mugghieri”. Non lo sa, ma fa la vera inculturazione, dal basso, normale, ordinaria. Effettiva, efficace. Dell’ambulante, tunisino, algerino, che alle Pietre Nere di Palmi parla il linguaggio di tutti: la pignoleria e la strafottenza, sotto il velo dello scherzo, la conclusione aperta, ironica, interrogativa.
 
Un maresciallo dei Carabinieri in vacanza con la famiglia rimprovera sul mare di Paola, sotto Cosenza, i vicini di ombrellone che buttano le cicche in acqua - “ci sono i posacenere”. I vicini rispondono con asprezza, un diverbio verbale  si accende. Dopo un po’, allontanatasi la famiglia sporcacciona, il maresciallo si accascia e muore. È un caso, ma singolare, se non  sintomatico: non c’è educazione alla pulizia in Calabria. C’era, anche fastidiosa, non c’è più. Si butta di tutto. Specie i giovani figli di mamma, buttano cicche, lattine, cartocci per terra, al bar e in strada, nelle piazze, e nelle case degli altri, ai cancelli, nelle aiuole, fin dentro i portoni. Non per cattiveria, forse nemmeno per stupidità: per tonteria probabilmente, come dice lo spagnolo, crescono ragazzi assenti, a se stessi.
 
Il giudice e il delinquente
Si seguono con raccapriccio sulla “Gazzetta del Sud” i resoconti della testimonianza gelida di Seby Vecchio. Cinquantenne curato, perfettamente vestito, preciso e rapido nell’eloquio come una saetta, che si presenta in Tribunale pentito per i benefici di legge e il pensionamento di Stato. Un pentito di ‘ndrangheta. Uno del clan Serraino, che distribuiva la cocaina a Milano, con uffici a Malaga. Vecchio è stato fino a vent’anni fa assistente capo di Polizia a Reggio Calabria, per un periodo anche alla Squadra Catturandi. Che lavorava nel tempo libero per le cosche, in ogni attività richiesta: pizzo, incasso, minaccia, trasporto droga. Poi in politica, con la destra Fdl, assessore per tre anni alla Pubblica Istruzione-Edilizia Scolastica e per due presidente del consiglio comunale di Reggio Calabria. Uno freddo, che fa giustizia dei “santini” e dei “giuramenti” – lui come i suoi correi, più o meno come lui pentiti.
Fa senso la sua impunità. Per ben due decenni. E nel dibattimento il suo linguaggio freddo, preciso, suo e dei suoi correi. A fronte dei balbettamenti della Pubblica Accusa, perduta dietro “battesimi”, “mammasantissima”, “santini”, e altre scemenze. 

Le Madonne dei Carabinieri
Per la seconda stagione il covid ci salva dalle processioni, e quindi dalle Madonne che si inchinano ai mafiosi. Gli incendi a San Luca e dintorni ci salveranno dal solito vertice mafioso alla Madonna di Polsi ora a settembre? È sperabile. Che i Carabinieri abbiano trovato altro da fare. Anche perché: Polsi è il santuario con più continuità di culto di tutta Europa, diciamo da 2.500 anni. E i mafiosi, che si spostano in Mercedes, anche in Bmw, come fanno con le portaerei tedesche sulle mulattiere del santuario? Ad arrivarci prima, e poi a fuggire.   
O i Carabinieri si penseranno sempre nella figura storica del “massaru Peppe”, il maresciallo Delfino, che da Platì un secolo fa andava a caccia personalmente dei latitanti, che per lo più erano pastori (massari), camuffandosi come loro. Adesso ci sono le strade e le automobili, c’è internet, ci sono i cellulari, i latitanti non sono pastori, e non rubano le pecore. Bisognerebbe aggiornare le letture dei Carabinieri?
 
Aspromonte
Brucia perché viene incendiato? Non si direbbe: ha bruciato per incuria e inavvertenza. Degli stessi enti preposti alla sorveglianza, Calabria Verde e il Parco dell’Aspromonte. Presieduto, quest’ultimo, dal vecchio sindaco di Bova, al centro dell’area grecanica, da dove gli incendi sono partiti, San Lorenzo, Bagaladi, Roccaforte del Greco, desertificando soprattutto quell’area, già non verde di suo. Un’incuria che ha dell’inverosimile: il Parco assegnava gli appalti per la sorveglianza anti-fuochi il 6 agosto…. Ma la Montagna ha resistito.
 
Un tempo appiccavano gli incendi i pastori, perché poi l’erba cresceva più grassa. I pastori hanno avuto a lungo cattiva fama in Aspromonte, anche prima delle novelle di Corrado Alvaro. L’abigeato era comune, non c’era notte senza, anche di due-tre capi. Nei “Fatti di Casignana”, il racconto dell’occupazione delle terre nel primo dopoguerra, qualche settimana prima della marcia su Roma, Mario La Cava mostra i pastori realisticamente, manovalanza dei tramestatori un po’ mafiosi. Ingovernabili, inaffidabili, se non per un interesse immediato. A danno dei coltivatori (contadini), anche se poveri e poverissimi. Si idealizza il pastore, ma non ha buona vista – e non  canta, non suona il piffero.
È anche vero che mai la questione della pastorizia è stata affrontata in Aspromonte, che i pastori sono sempre e ovunque abusivi. I pochi che ancora  esercitano la pastorizia, che è faticosa.

È territorio ampio e vario, ma è dominato da qualche decennio dalla due realtà, per quanto minuscole, più violente, San Luca e Africo. Per la sperequazione che c’è tra queste due comunità, primitive, violente, e il resto della Montagna, imborghesito?  Potrebbe essere, il ciclo pastorale, di cui San luca e Africo sono tuttora espressione, non ha nulla, mai avuto, della pastorelleria .Tutto al contrario. Anche se le leggi latitano.
 
È monte bianco, si è detto: in greco bianco è aspros, e la Montagna venendo per mare dallo Jonio poteva apparire biancastra: desertica, pietrosa - lo era fino a pochi decenni fa (e tornerà a esserlo dopo gli incendi del 19 agosto).
No, si è detto, questa etimologia mette insieme una parola latina, mons, e una greca, aspros. Né c’è il corrispondente nel grecanico, la sopravvivenza della vecchia parlata greca nelle sue balze meridionali. È denominazione normanna, prima non c’era, derivata dai tanti Aspremont, in Provenza e altrove, che i “figli del sole” portavamo d’oltralpe – allo stesso modo che importarono, adattandoli, i cicli cavallereschi, carolingio, dei reali di Francia, di Guerrin Meschino.
Ma la contaminazione in realtà è ben normanna. Per tutte valga il Mongibello per l’Etna, Monte-Monte, Mont-Gebel, latino (francese) e arabo. Il nome Aspromonte sorge nella narrativa normanna, per l’appunto, commissionata in occasione della Terza Crociata, o crociata de re, che partiva da Messina, “Chanson d’Aspremont”, il ciclo carolingio, con Orlando per tutti, spostato sull’assedio e la conquista saracena di Risa-Reggio Calabria.
 
I grandi massi sono di prima dell’occupazione umana. Anche le “masse metamorfiche” dei geologi, gli strati sedimentari magmatici alla base. Le acque sono le stesse, capricciose e cristalline, sonore. L’aria presenta una purezza e una trasparenza  che non si sentono e non si vedono altrove. Come forse in tutte le montagne, ma qui a ogni angolo in  vista del mare.
 
Non c’è nella poesia locale, di Soffré o “Bidhu” (Antonino Frisina) di Delianuova, né in Perri, La Cava e altri del versante jonico. Sovrasta nelle narrazioni di Corrado Alvaro, come una sorta di incubo, e quindi di Africo (Criaco, Calopresti, Munzi), ma è montagna gentile. Ha avuto cattiva fama nella stagione dell’Anonima Sequestri, dei rapimenti di persona per i quali serviva da rifugio – sollevando l’ilarità di Fruttero e Lucentini (“La prevalenza del cretino”: ma “quanto sarà grande questo terribile Aspromonte”, il “Luogo dell’Inaccessibile”, l’“ultimo, romantico baluardo dell’’Ignoto”? “Mah, più  meno come le Langhe, come la Brianza, come il Friuli, ci risponde chi lo conosce, giusto per darci un’idea. A sorvolarlo in elicottero ci si mette di meno che ad attraversare Milano o Roma in automobile. Beh, ma allora?”). È una montagna mite, la più mite forse dell’Appennino, che guarda da tutti i pizzi al mare. Senza strapiombi, senza rocce, anzi alberata, di passo lieve. Di clima temperato secco.
 
Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”, ha il Mugello dopo Firenze, luogo ameno, dissestato dalla galleria dell’Alta velocità ferroviaria: “Sulla mappa del Mugello trovo acque dai nomi favolosi, ma se provo a evocarle non ho risposta. Fonte al Ciliegio! Assente. Fonte della Canina! Assente. Fonte Frassineta! Assente. Fonte di Fosso Lupaio! Assente. Torrente Bagnone! Asente. Fiume Rovigo! Assente. Stanno solo sulla carta, il mormorio è perduto”.
C’è un impoverimento anche nell’arricchimento. I torrenti e i fiumi scomparsi sono una lista ancora più lunga delle sorgenti. E non si può farne una colpa alla politica: la Toscana è di sinistra e il Mugello ancora di più.
 
Man mano che diventa turistico, perde le vecchie abitudini. Una però no: l’acqua. La ricerca delle acque, delle sorgenti. Ognuno ne ha una migliore di ogni altra – non necessariamente sempre la stessa, ma una sorgente ci vuole, dove rifornirsi, anche con lunghi viaggi. Rumiz, “E’ Oriente”, 168,  ha “il senso salvifico delle risorgive attorno ale quali danzano terapeuti”. Ora magari non più, terapeuta è solo l’acqua, che sgorga, cristallina. Ma certo l’eco rimane del senso salvifico delle sorgenti in Grecia, negli inni, nelle elegie. Sul fondo, certo, dell’acqua elemento vitale primordiale, e poi nella pancia della mamma. O dell’acqua che fugge agli inferi, che libera…. Elemento però comunitario, in tanta radicale anarchia.
 
Il regime idrico dell’Aspromonte è tipicamente quello delle “fiumare”. Torrenti di breve corso, in alveo ristretto, che può essere – lo era fino qualche decennio fa, prima della irreggimentazione dei bacini idrici – disastroso in caso di piogge alluvionali, improvvise e dense. Ma in regime normale è gradevole e dà piacevolezza alla Montagna, per suono, trasparenza, governabilità.
 
Il culto delle sorgenti Nicolas Bouvier, viaggiatore intrepido da Ginevra all’Afghanistan in Topolino nel 1953, ne trovava la fascinazione in Jugoslavia (“La polvere del mondo”, p. 85): “Chi nei nostri climi si preoccupa del gusto dell’acqua?”, si chiede. 
“Non in Jugoslavia: Qui è un passatempo. Vi impegnano  a fare dieci chilometri a piedi per una sorgente la cui acqua è unica”. Questo in Macedonia del Nord. Al punto da essere condiscendenti: “La Bosnia, per esempio, che qui non si ama troppo, non obbliga a riconoscere che ha un’acqua incomparabile, corroborante, etc.”. Al punto che “un silenzio sognatore si fa, e le lingue schioccano” – dal piacere.

leuzzi@antiit.eu

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