La Calafrika, dove non conoscono Kristóf
Crotone
è “in fiamme”, a Vibo Marina “ieri c’erano quarantadue gradi”, “a Crotone
quarantasette invece”. La storia si direbbe ferma, anche in fatto di calura, il
caldo in estate è sempre troppo.
Sei
racconti, o piuttosto scene, di vita: la tendopoli per africani di Rosarno, una
fabbrica di veleni, invisibile, Crotone, città dove “si vive male”, la
malasanità a danno di una ragazza, una manifestazione alla Sapienza, e Roma, o “i
treni che dalla stazione Termini portano in Calabria”. Più altri esercizi in arrabbiatura
di passaggio, sui fatti della vita che il giornale propone. Come il suicidio di
Norman Zarcone, a 27 anni, a Palermo, il genio filosofico cui i baroni
universitari hanno sbarrato il futuro – ma no, il futuro è ampio, ce n’è per
tutti. Un esercizio di bravura su una struttura esile, di cronache e, per lo
più, collere.
Un
progetto ambizioso, di fine scrittura, ricercata, innovativa. Sul solco della
scrittura beat anni 1950 – Kerouac,
Ginsberg et al.. Per un adattamento,
o viraggio al sociale, della “nuova oggettività” del linguaggio scritto – l’invenzione
di Gertrude Stein e Hemingway: la frase breve, l’anticipo, il dialogo in fieri, ripetitivo (tutti nomi assenti, però, fra le tante letture formative che Bubba nomina). Ma come slegato di fatto
dalla vita, passioni e dolori esibendo per cataloghi. Nella forma
racconto-saggio che Saviano ha portato con “Gomorra” al successo di pubblico. Se
non che “Gomorra” è opera di radicale revisione editoriale, e anche dopo rimane
alla rilettura insieme sbiadita e appesantita. Un genere, insomma, difficile da
maneggiare. Che finisce, benché elaborato, nell’invettiva. Prolungata, ma non
più di un moto di stizza.
Resta
una sorta di instant book, benché voluminoso. Un racconto che
riflette un momento di rabbia, o di demoralizzazione. Che però si prolunga,
molto più che un momento, e senza argomenti, non consistenti - forse una
condizione: la depressione, si sa, è muta ma cattiva, micidiale?
Un
caso anche, marcato, di odio-di-sé, la categoria che un secolo fa Theodor
Lessing elaborava per l’ebraismo – con ben altro fondamento: la delusione che
porta all’imprecazione. Che male ho fatto a nascere in Calabria è il sottinteso.
Questo in ogni forma, e quasi in ogni capoverso: la Calafrica, anzi la
Calafrika, un lunghissimo “Roma”, sui calabresi a Roma, al Tiburtino, San
Lorenzo, Monti Tiburtini (ma la maggior parte non sono altrove?), Rosarno naturalmente,
intesa ghetto per africani, o in alternativa a Crotone il centro Sant’Anna, che
gli africani tiene in parcheggio, in riserva - come se non ce ne fossero purtroppo anche altrove. Con riferimenti anche ricercati: Crotone
come Dublino, e Tiro – le quattro età dei quindici racconti “Dublinesi” di Joyce
bloccate dalla paralisi, la città di Didone pietrificata all’arrivo di Enea. In
sintesi: “In Calabria l’ironia se n’è andata da un pezzo”.
Leggerlo
dieci anni dopo l’uscita, un po’ toglie il fiato. Anche perché sembra, viaggiando
in Calabria, modellato sulle gazzette locali, bollettini criminologici - di
“fatti”, certo. Mentre Bubba era già scrittrice affermata, finalista allo
Strega del 2010, esordiente pluripremiata a ventun anni. Scrittrice, calabrese
senza dubbio, di molta energia. E finisce che a un certo punto la Calabria è
l’Italia, luogo piatto, a due dimensioni, l’incudine e il martello. Mentre l’ironia
è la (sola) cosa che della Calabria resta, la “zannella”.
Un
linguaggio? Una forma mentis? La deprecazione.
Ben calabrese, a voler restare in argomento. Ma senza lo scherzo finale: in
Calabria tutti scherzano, dopo essersi sparlati addosso, invece di analizzare e
armarsi – la situazione è grave ma non seria. Specchio di un fondo culturale
diffuso nella regione di Bubba, del rifiuto-di-sé sotto la forma opposta del
legame indissolubile, dell’amore vero, del destino indissolubile.
A
Crotone non vendono Ágotha Kristóf – e a Roma? Si penserebbe sia una battuta per ridere.
Angela
Bubba, Mali Nati, Bompiani, pp. 375
€ 17
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