giovedì 19 agosto 2021

La poesia carcerata

“No, mai di nessuno fui contemporaneo,\ non mi comviene tanto onore”. Peggio: “Il mio omonimo, quanto mi disgusta”. È il 1924, a ridosso dello smascheramento della rivoluzione sovietica – Mandel’stam è impedito di pubblicare da un anno, e lo sarà ancora per un decennio, per nessuna colpa. Già pessimista nel 1923: “Il fragile calendario della nostra epoca si avvicina alla fine”. Stalin non perdona, Mandel’stam come gli altri poeti suoi contemporanei, Majakovskij compreso e Pasternak – retrospettivamente, sembra impossibile che ci sia stata una persecuzione dei poeti, occhiuta, perseverante, si penserebbe che il potere ha altro di cui occuparsi, eppure… L’epigramma celebrato del ’33 contro il dittatore sarà uno sfogo solo naturale, anche se sancirà la fine del poeta al confino solitario. 
Remo Faccani riprende la prima traduzione di Mandel’stam, “Cinquanta poesia”, e la allarga. Aggiornando la raccolta e la traduzione con la filologia mandel’stamiana specialmente fertile da qualche anno. Col recupero di alcuni componimenti delle prime raccolte, “Pietra” e “Tristia”, di “fraseggio lapideo” (Serena Vitale): Di un poeta attratto dall’ellenismo, dalla “vastità omerica”, e quindi dall’“intellettualismo dantesco”. Sono poesie di maniera giovanile, di saggezza acquisita, degli elementi,  dei fremiti adolescenziali, l’anima, la notte, la fragile conchiglia, Pietroburgo. Ma già con “la casa degli Usher” e “l’arpa di Edgar” (Allan Poe). E lo sguardo libero: “Pesante fardello dello snob settentrionale\ è il vecchio spleen di Onegin”.
Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, Einaudi, pp. XXXIV + 278 € 16

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