La poesia carcerata
“No,
mai di nessuno fui contemporaneo,\ non mi comviene tanto onore”. Peggio: “Il
mio omonimo, quanto mi disgusta”. È il 1924, a ridosso dello smascheramento della
rivoluzione sovietica – Mandel’stam è impedito di pubblicare da un anno, e lo
sarà ancora per un decennio, per nessuna colpa. Già pessimista nel 1923: “Il
fragile calendario della nostra epoca si avvicina alla fine”. Stalin non
perdona, Mandel’stam come gli altri poeti suoi contemporanei, Majakovskij
compreso e Pasternak – retrospettivamente, sembra impossibile che ci sia stata
una persecuzione dei poeti, occhiuta, perseverante, si penserebbe che il potere
ha altro di cui occuparsi, eppure… L’epigramma celebrato del ’33 contro il
dittatore sarà uno sfogo solo naturale, anche se sancirà la fine del poeta al
confino solitario.
Remo
Faccani riprende la prima traduzione di Mandel’stam, “Cinquanta poesia”, e la allarga.
Aggiornando la raccolta e la traduzione con la filologia mandel’stamiana
specialmente fertile da qualche anno. Col recupero di alcuni componimenti delle
prime raccolte, “Pietra” e “Tristia”, di “fraseggio lapideo” (Serena Vitale):
Di un poeta attratto dall’ellenismo, dalla “vastità omerica”, e quindi
dall’“intellettualismo dantesco”. Sono poesie di maniera giovanile, di saggezza
acquisita, degli elementi, dei fremiti
adolescenziali, l’anima, la notte, la fragile conchiglia, Pietroburgo. Ma già
con “la casa degli Usher” e “l’arpa di Edgar” (Allan Poe). E lo sguardo
libero: “Pesante fardello dello snob settentrionale\ è il vecchio spleen di
Onegin”.
Osip
Mandel’štam, Ottanta poesie,
Einaudi, pp. XXXIV + 278 € 16
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