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Ariosto –Non c’è solo Dante nella poesia di
Mandel’stam, nella Russia degli anni 1910-1920. Ariosto ricorre. Lo evoca in particolare
in uno dei componimenti dispersi, del 4-6 maggio 1933, a lui intitolato, riletto
in raffronto all’Italia del tempo: “In tutta Italia il più saggio, il più
gentile,\ l’amabile Ariosto ha perso un po’ la voce”. È “freddo in Europa, buio
sull’Italia.\ Il potere è ripugnante come le mani di un barbiere”. Ma lui non
demorde, “le racconta grosse” – “incantevole miscuglio di mestizia puškiniana\ e
boria mediterranea in una lingua di cicale”.
Capri – Ma è l’isola delle capre – o dei cinghiali:
a seconda che lo si voglia nome latino oppure greco. Il destino dei nomi.
Dialetto – “Il dialetto è sottostoria”, decide
infine Pavese, che ci ha molto cogitato su (“Il mestiere di vivere”, 11 marzo
1949): “L’ideale dialettale è lo stesso in tutti i tempi. Il dialetto è
sottostoria”. Per entrare nella storia bisogna rischiare e scrivere in lingua.
Ma a volte,
Gadda, un po’ anche Pasolini, la storia si afferra col dialetto. O è una storia
falsa – fantastica, inventata, adulterata?
Europa – Si è forgiata nei rumori, di guerra –
Camus lo rileva ad avvio della novella “Il Minotauro o la fermate di Orano”:
“Vi si sente la vertigine dei secoli, delle rivoluzioni, della gloria. Ci si
ricorda che l’Occidente si è forgiato nei clamori. Non c’è abbastanza
silenzio”.
Federico II – Un re nomade, lo dice Rumiz, “È
Oriente”, visitando Castel Del Monte, dove non trova cucine, stanze per la
servitù, una sala del trono – ma nemmeno suppellettili, arredi: “Dove dormiva
Federico di Hohenstaufen? Non stava dentro il castello, ma fuori. Era un re
nomade e dagli arabi aveva imparato a vivere in tenda”.
Italiano – Nei racconti che ambienta a Orano, o
comunque in Algeria con personaggi a lui “vicini”, Camus interpola parole
italiane. Nel racconto “La pierre qui pousse” usa coq, gallo, nel senso di cuoco. Camus era de resto nato in una città
algerina di nome Mondovì, sul mare, al confine con la Tunisia – con l’arabizzazione ribattezzata
Dréan (Orano è al lato opposto, sul mare al confine col Marocco).
Anche Yasmina
Khadra, lo scrittore franco-algerino, nei racconti che ambiente a Orano usa
parole italiane, “ponte”, “omertà”, “mollo”, “porcherie” solo nell’ultimo
romanzo, “L’oltraggio fatto a Sarah Ikker”.
Ne lamenta il
peso, l’influenza, nella breve ripresa poetica del 1933, dopo il decennio di
divieto di pubblicazione per scarso sovietismo (ma alla soglia dell’internamento
poi fatale), Mandel’stam nel maggio 1933, un dei testi dispersi collazionati dalla
vedova Nadežda (nella traduzione di Serena Vitale): “Che tormento l’amore per
il brusio straniero - \ per gli illeciti entusiasmi una tassa sta in agguato.\
Che fare se Ariosto e Tasso, di cui siamo in malia,\ sono mostri dal cervello
azzurro, dagli umidi occhi squamosi…”.
Non ha prodotto
i grandi romanzi perché si scrive corto, annota Pavesre nel diario il 2 novembre
1943. L’italiano si direbbe un popolo di novellatori, non c’è in altra lingua
scrittura novellistica, in poesia e in prosa, più che in italiano. Ma di breve
respiro, osserva Pavese: “La poiesis
italiana ama le grandi strutture fatte di piccoli capitoletti, di parti brevi e
sugosissimi – i frutti dell’albero. (Dante, i brevi canti; Boccaccio, le novelle;
Machiavelli, i capitoletti delle opere maggiori; Vico, gli aforismi della Scienza nuova; Leopardi, i pensieri
dello Zibaldone, ecc. Per non parlare
del sonetto”, Dovrebbe dunque spopola e sui blog, twitter, i social.
“Per questo”,
insiste Pavese, “la poiesis
italiana poco narrativa (dove si
richiede lunga distensione disgorgante: romanzo russo, romanzo francese) è
molto cerebrale e argomentante. È la negazione del naturalismo, che comincerà
infatti con l’informe distesa della narrativa inglese (Defoe)”.
Joyce – Berberova ha in un racconto (“La
grande città”, in “La resurrezione di Mozart”) “l’immortale seminarista di
Dublino”. In effetti lo fu, seppure solo per fare il ginnasio gratis.
Nerina – Il nome poetico “non ha cognome”,
Jhumpa Lahiri in nota ad avvio del suo “Quaderno di Nerina”, il volume di
composizioni poetiche scritto in italiano. Un nome tratto da greco Nereine, una
Nereide, una ninfa marina. “In Sicilia”, Lahiri, ricorda, “è il diminutivo di
Venerina, associato all’aggettivo «nero» per tradizione popolare”. C’è una
Nerina nell’“Aminta” del Tasso, e naturalmente quella di Leopardi, delle
“Ricordanze”. Lahiri vi associa anche Neera, la scrittrice di storie
sentimentali del tardo Ottocento Anna Maria Zuccari, rivalutandola - “le (sue)
numerose opere hanno affrontato la vita e la posizione speciale delle donne”.
Charles Kenneth Scott Moncrieff –
Traduttore\introduttore di Pirandello in lingua inglese, è celebrato per avere
tradotto Proust, la “Ricerca”, quasi in simultanea, a mano che l’opera appariva
in francese, facendone nello stesso tempo un testo “inglese”, senza tradire
l’originale – il pubblico di lingua inglese ha grazie a Moncrieff una conoscenza
migliore di Proust rispetto a quelli di altre lingue europee. Anche se alimenta
controversie interminabili se il suo Proust è Proust, un quasi Proust, un Proust
anglicizzato, o nient’affatto Proust. A cominciare dal titolo shakespeariano,
“Remembrance of Things Past”, invece che, come avrebbe dovuto, “In Search of
Lost Time”. Ma Conrad poté dire che Moncrieff era un miglior traduttore di Proust
scrittore.
Na Proust non
era il suo genere. Pirandello, che tradusse e impose a Londra e in America,
reputava più di Proust.
Se ne fa una
biografia che lo dice soldato e spia, “The Life of C.K.Scott Moncrieff,
Soldier, Spy, and Translator”. Azzoppato in guerra, spia nell’Italia di
Mussolini, morì a 41 anni, a Roma, alla clinica delle suore del Calvario – convertito
in guerra, era molto devoto (è seppellito al Verano). Un “uranista”, come si diceva attorno alla
Grande Guerra per dire omosessuale, amico intimo del famoso segretario privato
gay di Churchill, Edward Marsh. Per questo motivo dopo la guerra decide di
stabilirsi in Italia, dove l’omosessualità non era penale – salutato al pranzo
d’addio dallo stesso Marsh con Noel Coward, Compton Mackenzie e Reggie Turner
(il politburo di quello che
W.H.Auden, dall’interno, chiamava l’Hominter). Italianato per evitare la polizia, vivrà a Venezia e altrove, e
imporrà Pirandello a Londra e in America.
Dolores Prato – La rilegge Jhumpa Lahiri, “Il
quaderno di Nerina”, a proposito di un “romanzo prolisso\ e meravigliosamente
dispersivo,\ le cui pagine, oltre seicento,\ vanno lette senza scavalcarne
una”.
È il romanzo “Giù
la piazza non c’è nessuno”, che Giorgio Zampa, altro irregolare, nonché
curatore della scrittrice, aveva rimesso a nuovo dieci anni fa? Constava in
origine di 1.500 pagine. Che Natalia Ginzburg aveva ridotto a trecento.
Succedeva nel 1980. L’ottantenne Prato, scontenta del digest, riprese a rivedere da sé il suo originale, preparando
questo testo che Zampa s’incaricò di pubblicare nel 1997.
Rembrandt – “Martire del chiaroscuro” - Osip Mandel’stam (8 febbraio 1937, a
Voronež), “padre del buio neroverde”.
Venezia – La “morte
festiva” ci trova Mandel’stam nel 1920 – “I tuoi paramenti, Venezia, sono gravi,\
specchi in cornici di cipresso.\ La tua aria è molata”.
La
stesa che nel racconto di Th. Mann, “La morte a Venezia”, 1912. Molto diversa
dal contemporaneo Proust – che insegue ancora Ruskin.
letterautore@antiit.eu
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