Giuseppe Leuzzi
Sandalli è il nome dell’ambasciatore
italiano a Kabul rientrato per primo a Ferragosto. Del generale (suo padre? sì)
che organizzò la fuga di Vittorio Emanuele III a Brindisi dopo l’8 settembre
1943. E di una borgata all’estremo limite di Gioia Tauro. Dove ora è un centro
commerciale, già inquisito e sequestrato (o confiscato) per mafia. Quante
storie in un nome.
“Erano tempi in cui le donne si
contavano a serque, come le uova: una figlia o sei figlie erano la stessa cosa
quando il maschio mancava”, annota Anna Banti (al secolo Lucia Lopresti, di
papà calabrese) in “Giulietta (e Romeo)”, un racconto del 1943: la vicenda di
Giulietta raccontata al femminile – Giulietta muore il giorno delle nozze,
fortunata per non diventare così “come le altre”. “Quando il figlio maschio
mancava”, finché, cioè, non arrivava il figlio maschio. Sei sorelle, peraltro belle, fino all’arrivo del settimo,
il figlio maschio, si possono incontrare tuttora in paese.
La Calabria
commissariata
Domenica
22 la sanità commissariata della Calabria condivideva con la Toscana, “il
miglior sistema sanitario nazionale” come si autoproclama, le posizioni di coda
nella graduatoria dei vaccinati, due su tre – un po’ meglio perfino della
provincia di Bolzano. Ma a Bolzano e in Toscana il problema è dei no vax, di chi
non vuole vaccinarsi, non di chi vorrebbe e non può. La sanità è un problema in
Calabria, malgrado una dozzina d’anni di commissariamenti. Che hanno
incancrenito e non migliorato la situazione. Hanno chiuso tutto, il cattivo
come il buono, non hanno aperto nulla, e non offrono più i lea costituzionali -
livelli elementari di assistenza.
Le ultime nomine tragicomiche alla sanità in Calabria hanno reso
evidente l’evidenza: i commissari sono mezze calzette, generali e prefetti pensionati,
anche questori, e vice-prefetti e dirigenti di prefettura con niente da fare, che niente si
occupano di fare durante il commissariamento, se non un po’ di chiacchiere. La
figura, introdotta da Prodi ministro dell’Industria nei cento giorni
dell’Andreotti IV, il terzo del compromesso storico, a fine 1978,
meritoriamente, per evitare il ricorso obbligato per le aziende in difficoltà
alle procedure fallimentari, applicato alla Funzione Pubblica è solo una rendita,
miserabile e costosa, per gente per lo più ignava. Applicata su vasta scala
nell’amministrazione pubblica è il vettore principale – per molteplici
indicatori – dell’impoverimento della Calabria nei tre ultimi lustri.
Una
settimana dopo le statistiche sui vaccinati tutti i candidati al voto regionale del 3-4
ottobre si sono
detti concordi che la gestione commissariale ha moltiplicato il debito a livello
esponenziale, e
ha
pregiudicato la qualità dei servizi offerti, quasi ovunque insufficienti. Al
deficit di bilancio (mediamente
60-100 milioni l’anno, con almeno un miliardo di pagamenti in sospeso con i
fornitori) si
è aggiunto il deficit di prestazioni, al di sotto dei lea, i livelli elementari di assistenza. Oltre al danno
economico. La sanità, per dirne una, era
e resta il maggiore ostacolo al ritorno degli
emigrati,
specie dei pensionati, che avrebbero la possibilità di godere la rendita in
Calabria come nei
paesi a fiscalità ridotta, stante il basso costo della vita, e la possibilità
di rimettere a valore, beneficiandone,
le vecchie case di proprietà. Reintroducendo una capacità di spesa che migliorerebbe molto il livello dei consumi
e del reddito complessivo, insomma l’economia della regione. Dato che le nuove leve dirigenti che il Sud forma devono emigrare al Nord, un cespite non indifferente.
La
“commissione commissariale” di Pizzo, i tre comissari che reggono il Comune di
Pizzo da un anno e mezzo, chiedono di prolungare la cosa. C’era troppo da fare,
non ce l’abbiamo fatta in diciotto mesi, spiegano in 50 pagine, che nessuno ha
letto, ma tutti hanno patrocinato: un Comitato Provinciale per l’Ordine e la
Sicurezza, la Procura della Repubblica di Vibo Valentia, la Direzione
distrettuale Antimafia di Catanzaro, e la ministra dell’Interno Lamorgese.
“Ancora concreto il rischio d’interferenza della ‘ndrangheta”, dicono
lapalissianamente – come, cioè, se la ‘ndrangheta cominciasse e finisse.
E
così è che Pizzo, borgo civilissimo, con lo stesso mare di Tropea, è quest’anno
impraticabile per casi di infezioni provocate dalla balneazione, della pelle,
delle orecchie, della gola. E non ha – non ha avuto ad agosto - l’acqua,
l’acqua da bere. Ma è pur sempre un borgo ridente a mare, e dunque i tre
commissari mandati dal prefetto di Vibo Valentia vorrebbero farci un altro
semestre, anche due altri.
È
una professione, si può dire, ben pagata. I commissari ai Comuni, prefetti e
vice-prefetti con nulla da fare, moltiplicano l’emolumento ordinario – in
aggiunta all’emolumento ordinario, come se fossero un esercito in missione di
pace in area disagiata e a rischio. Tra indennità, rimborsi e premi, è stato
calcolato, un incarico vale 160 mila euro l’anno. Più la macchina con autista
(la “scorta”) per gli spostamenti. La prima indennità è quella del sindaco
destituito. La seconda è quella del consiglio comunale, poiché il commissario,
i commissari, sostituiscono anche il consiglio comunale: un quinto dell’indennità dei consiglieri.
Questo, per la verità, non per tutt’e tre i membri della “commissione
commissariale”, per il prefetto commissario. I due subcommissari prendono il 70
per cento di quanto prende il prefetto-commissario. Ragione per cui i commissari
prefettizi ai Comuni commissariati sono stati portati da uno a tre. Tutte spese
a carico dei Comuni commissariati - in dissesto…
Sono
137 i Comuni commissariati solo in Calabria, su un totale di 404. In uno dei paesi
commissariati, nel mese di agosto, solo uno dei commissari riceveva il pubblico,
un giorno la settimana, dalle 8 alle 12, ma arrivava alle 10, e alle11 aveva “impegni
urgenti”. Dopo aver dettato alla “Gazzetta del Sud” prona una serqua di risultati mirabolanti, tutti in fieri, da perfezionare da parte dell’amministrazione
entrante.
La
legge è precisa quanto ai commissariamenti: “Per lo scioglimento la legge
prevede che ci siano “concreti, univoci e rilevanti elementi sui collegamenti
degli amministratori con la criminalità organizzata”. Ma a volte basta una
semplice cuginanza con un portatore di carichi pendenti – anche non intervenuta
dopo il voto, antecedente alla compilazione delle liste elettorali ma allora
non rilevata. Sui “collegamenti” vigilano i Carabinieri, con i carichi
pendenti, in un quadro giudiziario cioè, e anche con la “note di servizio”,
informali, di caserma.
Decidono i prefetti.
Ma si sa le cose come vanno: è un gioco, facile, con regole semplici. Si chiede
un rapporto alla Questura. La Questura lo demanda ai Carabinieri. Che diligenti
segnalano “ogni cosa”. E la decisione è giuridicamente inoppugnabile: non c’è
contestazione possibile, non c’è dibattimento, non c’è remissione – un
consigliere, anche un funzionario infedele, si potrebbe allontanare senza
scandalo, se solo si trattasse di osservare la legge, ma allora il
commissariamento?
Non
si può pretendere altro, è vero. Il prefetto non è quello di Spadolini, il braccio
del governo. È uno che tira a (meglio) campare. Quello immortale di Luisa Adorno,
“L’ultima provincia” – che invece fu la prima della neonata Repubblica. Quello
che Mario La Cava descrive ne “I fatti di Casignana”: “Le carte erano il suo
fortilizio”. Assegnava le terre incolte, dopo un anno se le riprendeva, non sapendo, e non chiedendoselo, perché lo
faceva – è la legge, certo. Ma non aveva criteri di opportunità, equilibrio,
prudenza, fuoriuscivano dalle sue competenze: “Davanti al tavolo monumentale di
mogano nero egli passava i suoi giorni lavorativi nella meditazione più ardua,
isolato da tutti, lontano dal mondo, immerso perennemente nelle carte come un
pesce domestico nel sul cristallo”.
Oppure
no, ha sempre ragione Spadolini, il prefetto è lo Stato. È l’Italia che
immiserisce la Calabria.
Pavese calabrese
-
più che un caso
Non fu marginale l’esperienza di Pavese in Calabria, confinato politico per sette mesi a Brancaleone, dal 4 agosto 1935 al 15 marzo 1936, villaggio remoto, allora, in Calabria, sul basso Jonio. Molte scoperte e una sorta d’immedesimazione vi fa nei sette mesi che vi trascorse – dopo essere stato in carcere a Torino e Roma per antifascismo. Forse a sua insaputa ma forse no, dato che queste impressioni traspone alcuni anni dopo nel racconto-romanzo “Il carcere”, La corrispondenza, e la lettura attenta de “Il carcere”- il suo primo romanzo o racconto lungo, 1938, prima ancora di “Paesi tuoi”, anche se lo pubblicherà solo nel 1948 (con una quarta di copertina, alla riedizione Einaudi successiva, del 1990, che prospetta “la scoperta di un’altra Italia da parte di un settentrionale”) - ne fanno un’esperienza per più di un aspetto influente, se non decisiva, sulla sua evoluzione personale e di scrittura.
Il paese all’arrivo lo respinge, “terre aride” e “spiaggia desolata”. Tutto lo respinge, non solo il posto: Pavese è fortemente cosmopolita di cultura, ma non ha mai viaggiato, se non dal paese a Torino. La desolazione è però solo un primo riflesso – Brancaleone è nell’allora arida e desertica Jonica (per contrapposto alla fascia tirrenica, allora verde, fertile, ricca: come la geografia economica può mutare rapidamente), oggi Locride. Ma presto subentra la familiarità.
Il soggiorno è lenitivo, più che punitivo, si arguisce dalle lettere. Anche per venire dopo la carcerazione, a Regina Coeli, che, seppure di pochi giorni, lasciava una traccia duratura di durezza, quasi di paura. Pavese descrive ai familiari (racconta in mezza pagina, un racconto trasfigurato nel “Carcere”) il barbone Ciccio, che periodicamente ricompare, per le generosità dei paesani. E li rassicura quasi a ogni lettera. “Qui sto bene, mi trattano con ogni civiltà”. “Qui i paesani mi hanno accolto molto umanamente”. A Natale gli portano dolcetti. “Brave persone”. “Non sono sporche”. “Il clima e il vitto mi dà al sangue”.
Non ama il mare, di fronte a cui Brancaleone si stende, dopo averlo agognato a Regina Coeli (“Ho una voglia di vedere il mare che spacca”). Ma ama passeggiarci davanti, il più del tempo. Manda continue richieste di libri, avendo tanto tempo a disposizione, senza alcunché da fare. Scopre, in un certo senso, la poesia dialettale – nel senso che, durante il soggiorno e dopo, il dialetto diventa riferimento costante, nel diario (“Il mestiere di vivere”) e nella sua stessa opera.
Nella corrispondenza lamenta l’asma, forte, ricorrente, anche di notte – di cui non c’è traccia nel “Carcere”. L’asma è psicosomatica? La agita per favorire un condono, la grazia – la corrispondenza era controllata? Ci piace pensarla dovuta al confino, dopo la prigione, di uno che si ritiene, si vuole, se lo dice costantemente, apolitico. Allo spaesamento, malgrado tutto, in un paese remoto che guarda l’Africa (così vuole il “viaggio nel pittoresco”, in realtà il paese guarda a Nord), e parla una lingua sconosciuta. Alla solitudine, di cui non è capace – per quanto la avochi.
È con “Paesi tuoi”, scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941, l’esordio di Pavese romanziere riconosciuto, benché già editore importante, per conto di Einaudi, e traduttore principe, specie dall’americano, con Vittorini. Un racconto del mondo contadino chiuso, duro, cattivo. Ma è un mondo già preciso ne “Il carcere”, che viene molti anni prima, anche se lo pubblicherà sette anni dopo “Paesi tuoi”, quindi con qualche possibile revisione
A Brancaleone, a differenza dal paese suo, Santo Stefano Belbo, c’è perfino un albergo, “Roma”. Lui ha preso una stanza. Da una donna. Con un contratto dettagliato. L’abitazione è sotto il livello della strada, e subito dietro la massicciata del treno: lamenta quindi costantemente l’umidità, e gli scarafaggi, e il fastidio notturno al passaggio (raro) del treno. È controllato bonariamente da un maresciallo dei Carabinieri, che “poi” si manifesterà socialista, alla cui figlia dà lezioni d’inglese.
Un soggiorno importante anche per la sua maturazione poetica, di linguaggio. E per la “(ri)scoperta” del mito. In questa terra straniera, per quanto empatica, Pavese si scopre per quello che sarà, negli affetti, in politica, e per molti aspetti nella scrittura.
“Il carcere” è la prima opera in cui Pavese fa “operare” il mito. Ci prova, anche se goffamente, con la “donna caprina”, Concia. Meglio, felice, disteso, gli verrà nei “Dialoghi con Leucò”, anche se non c’è alcun riferimento diretto col soggiorno obbligato - ninfa egeria in questo caso Bianca Garufi, di Messina, folta capigliatura nera, crespa, “ragazza costantemente turbinosa” (Bobi Bazlen), collega di lavoro nel secondo soggiorno a Roma, alla Einaudi a Roma, da luglio 1945 a torre 1946? Scrisse il “Dialogo” tra dicembre 1944 e gennaio 1945, veloce, di getto, a Roma, l’opera cui più teneva, di continuo riferimento nella corrispondenza e nel diario – se lo portò in albergo la notte del suicidio.
Leucò, Leucotea, dea bianca, s’identificava in antico con Ino, dea marina. Ed è a Brancaleone che Pavese “scopre” il mare, come presenza invadente. Con fastidio e con sollievo – è il solo luogo, la spiaggia, dove gli piace passeggiare, da solitario, e può farlo, per “prendere l’aria”, senza doverne dare ragione. Una superficie che a volte respinge, per la monotonia, ma anche popola, di ninfe. Lo stesso che in paese, dietro la serva scura e altera che affascina il suo alter ego della narrazione, Concia, ragazza e madre, che vuole “caprigna” – capro è la personificazione in antico della lussuria o desiderio. Ma gode anche i favori, in carne, assicura, non nel mito, di una classicissima Elena, che lo accoglie sorridente e muta al suo interno, anch’essa bianca, e grande – Grande Madre, Dea Madre.
La prima traccia è nel “Carcere”., nell’inseguimento della ninfa-capra, sotto la forma di una Concia, una serva, minuta, sfuggente, che attraversa lo sguardo di Pavese, non vista dai più, e scompare dietro un vallone, salendo i gradini che aprono una casa che resterà misteriosa. Che Pavese mitizza, il capro: “C’era qualcosa di caprigno, selvatico ed insieme dolcissimo”, è una sorta di ritornello. Un’ombra, confrontata con la presenza fisica di Elena, che fa le pulizie a Stefano, e giace con lui volentieri nelle ore notturne, quando il paese non vede. Un tentativo di distinguere la voluttà, povera cosa per Stefano, dal mitico – dalla fantasia – che sarà problema di vita di Pavese. L’incompiutezza (oggi “inadeguatezza”) del desiderio. Una persona che esiste, con lo stesso nome, madre già di un figlio del “padrone”, sconsiderata ai più, che Pavese mitizza nella sua fantasia.
In uno degli ultimi appunti de “Il mestiere di vivere”, il 9 gennaio 1950, l’anno cominciato con i pensieri di morte (ben prima dunque dell’innamoramento con Constance Dowling), si rimprovererà: “La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi è segno di timidezza, di fuga davanti ai poveri e gli impegni del mondo umano”. Il biografo si chiederà perché farsene una colpa? Del mito, parlato (svuotato) o curioso (vissuto), del sogno a occhi aperti, della (parvenza di) conoscenza ultima seppure non definitiva, e condivisa, popolare. Il mito si direbbe realtà aumentata, e dunque il suicidio? Nel caso può essere l’ossessione dell’impotenza sessuale, fisica o mentale, alla quale si riduce per i tanti rifiuti – alla maniera di Nietzsche, e come per il filosofo non per improntitudine o goffaggine ma per incapacità. Vedi il rifiuto sofferto da parte di Constance, e subito dopo di Romilda Bollati, e prima, a cadenza quinquennale, di Bianca Garufi, di Fernanda Pivano, di Tina Pizzardo. Ma il mito lo scrittore Pavese ha coltivato, tanto timidamente non si direbbe, né debolmente. Una passione che gli si manifesta, nella biografia e nell’opera, nell’inverno di Brancaleone, di un confino politico che è confine, punto di contatto, col mondo “mitico”, “greco”, “idillico”.
“Il carcere” è ben il romanzo di Brancaleone. Si comincia subito, con i compagni di conversazione all’osteria - una “scelta” portata dall’età, giovani con giovani. Alla seconda pagina de “il carcere” ha già colto il senso e lo schema della conversazione, del commercio umano: passeggiare tra uomini sottobraccio, i saluti “asciutti” e “il riserbo”, gli scambi laconici (“Tutto il paese conversava così”, per ellissi, per rinvii a significati noti, “a occhiate e canzonature”, bonarie), l’autocanzonatura (“Siamo gente inquieta che sta bene in tutto il mondo ma non al suo paese”, “Si è vecchi quando si torna al paese”, “Voialtri avete il lavoro, noi abbiamo l’amore” – sembra di sentire già Otello Profazio, “Noi abbiamo l’aria”). Ne fa suoi, inavvertitamente, alcuni modi di dire. Soprattutto nei dialoghi: “Siamo nelle mani di Dio”. “Conosciamo qualcuno, se cosa vi occorre”. “Fare razza”, per fare gruppo, famiglia, banda. “Quello è storto” - scemo, debole, non sa difendersi. “Che scherzate?”, non se ne parla. . “Alla bellezza…”, saluto d’ingresso. È ben locale, calabrese, l’osservazione: “Qui sono tutti avvocati. Hanno tutti un parente in prigione”.
Non fu marginale l’esperienza di Pavese in Calabria, confinato politico per sette mesi a Brancaleone, dal 4 agosto 1935 al 15 marzo 1936, villaggio remoto, allora, in Calabria, sul basso Jonio. Molte scoperte e una sorta d’immedesimazione vi fa nei sette mesi che vi trascorse – dopo essere stato in carcere a Torino e Roma per antifascismo. Forse a sua insaputa ma forse no, dato che queste impressioni traspone alcuni anni dopo nel racconto-romanzo “Il carcere”, La corrispondenza, e la lettura attenta de “Il carcere”- il suo primo romanzo o racconto lungo, 1938, prima ancora di “Paesi tuoi”, anche se lo pubblicherà solo nel 1948 (con una quarta di copertina, alla riedizione Einaudi successiva, del 1990, che prospetta “la scoperta di un’altra Italia da parte di un settentrionale”) - ne fanno un’esperienza per più di un aspetto influente, se non decisiva, sulla sua evoluzione personale e di scrittura.
Il paese all’arrivo lo respinge, “terre aride” e “spiaggia desolata”. Tutto lo respinge, non solo il posto: Pavese è fortemente cosmopolita di cultura, ma non ha mai viaggiato, se non dal paese a Torino. La desolazione è però solo un primo riflesso – Brancaleone è nell’allora arida e desertica Jonica (per contrapposto alla fascia tirrenica, allora verde, fertile, ricca: come la geografia economica può mutare rapidamente), oggi Locride. Ma presto subentra la familiarità.
Il soggiorno è lenitivo, più che punitivo, si arguisce dalle lettere. Anche per venire dopo la carcerazione, a Regina Coeli, che, seppure di pochi giorni, lasciava una traccia duratura di durezza, quasi di paura. Pavese descrive ai familiari (racconta in mezza pagina, un racconto trasfigurato nel “Carcere”) il barbone Ciccio, che periodicamente ricompare, per le generosità dei paesani. E li rassicura quasi a ogni lettera. “Qui sto bene, mi trattano con ogni civiltà”. “Qui i paesani mi hanno accolto molto umanamente”. A Natale gli portano dolcetti. “Brave persone”. “Non sono sporche”. “Il clima e il vitto mi dà al sangue”.
Non ama il mare, di fronte a cui Brancaleone si stende, dopo averlo agognato a Regina Coeli (“Ho una voglia di vedere il mare che spacca”). Ma ama passeggiarci davanti, il più del tempo. Manda continue richieste di libri, avendo tanto tempo a disposizione, senza alcunché da fare. Scopre, in un certo senso, la poesia dialettale – nel senso che, durante il soggiorno e dopo, il dialetto diventa riferimento costante, nel diario (“Il mestiere di vivere”) e nella sua stessa opera.
Nella corrispondenza lamenta l’asma, forte, ricorrente, anche di notte – di cui non c’è traccia nel “Carcere”. L’asma è psicosomatica? La agita per favorire un condono, la grazia – la corrispondenza era controllata? Ci piace pensarla dovuta al confino, dopo la prigione, di uno che si ritiene, si vuole, se lo dice costantemente, apolitico. Allo spaesamento, malgrado tutto, in un paese remoto che guarda l’Africa (così vuole il “viaggio nel pittoresco”, in realtà il paese guarda a Nord), e parla una lingua sconosciuta. Alla solitudine, di cui non è capace – per quanto la avochi.
È con “Paesi tuoi”, scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941, l’esordio di Pavese romanziere riconosciuto, benché già editore importante, per conto di Einaudi, e traduttore principe, specie dall’americano, con Vittorini. Un racconto del mondo contadino chiuso, duro, cattivo. Ma è un mondo già preciso ne “Il carcere”, che viene molti anni prima, anche se lo pubblicherà sette anni dopo “Paesi tuoi”, quindi con qualche possibile revisione
A Brancaleone, a differenza dal paese suo, Santo Stefano Belbo, c’è perfino un albergo, “Roma”. Lui ha preso una stanza. Da una donna. Con un contratto dettagliato. L’abitazione è sotto il livello della strada, e subito dietro la massicciata del treno: lamenta quindi costantemente l’umidità, e gli scarafaggi, e il fastidio notturno al passaggio (raro) del treno. È controllato bonariamente da un maresciallo dei Carabinieri, che “poi” si manifesterà socialista, alla cui figlia dà lezioni d’inglese.
Un soggiorno importante anche per la sua maturazione poetica, di linguaggio. E per la “(ri)scoperta” del mito. In questa terra straniera, per quanto empatica, Pavese si scopre per quello che sarà, negli affetti, in politica, e per molti aspetti nella scrittura.
“Il carcere” è la prima opera in cui Pavese fa “operare” il mito. Ci prova, anche se goffamente, con la “donna caprina”, Concia. Meglio, felice, disteso, gli verrà nei “Dialoghi con Leucò”, anche se non c’è alcun riferimento diretto col soggiorno obbligato - ninfa egeria in questo caso Bianca Garufi, di Messina, folta capigliatura nera, crespa, “ragazza costantemente turbinosa” (Bobi Bazlen), collega di lavoro nel secondo soggiorno a Roma, alla Einaudi a Roma, da luglio 1945 a torre 1946? Scrisse il “Dialogo” tra dicembre 1944 e gennaio 1945, veloce, di getto, a Roma, l’opera cui più teneva, di continuo riferimento nella corrispondenza e nel diario – se lo portò in albergo la notte del suicidio.
Leucò, Leucotea, dea bianca, s’identificava in antico con Ino, dea marina. Ed è a Brancaleone che Pavese “scopre” il mare, come presenza invadente. Con fastidio e con sollievo – è il solo luogo, la spiaggia, dove gli piace passeggiare, da solitario, e può farlo, per “prendere l’aria”, senza doverne dare ragione. Una superficie che a volte respinge, per la monotonia, ma anche popola, di ninfe. Lo stesso che in paese, dietro la serva scura e altera che affascina il suo alter ego della narrazione, Concia, ragazza e madre, che vuole “caprigna” – capro è la personificazione in antico della lussuria o desiderio. Ma gode anche i favori, in carne, assicura, non nel mito, di una classicissima Elena, che lo accoglie sorridente e muta al suo interno, anch’essa bianca, e grande – Grande Madre, Dea Madre.
La prima traccia è nel “Carcere”., nell’inseguimento della ninfa-capra, sotto la forma di una Concia, una serva, minuta, sfuggente, che attraversa lo sguardo di Pavese, non vista dai più, e scompare dietro un vallone, salendo i gradini che aprono una casa che resterà misteriosa. Che Pavese mitizza, il capro: “C’era qualcosa di caprigno, selvatico ed insieme dolcissimo”, è una sorta di ritornello. Un’ombra, confrontata con la presenza fisica di Elena, che fa le pulizie a Stefano, e giace con lui volentieri nelle ore notturne, quando il paese non vede. Un tentativo di distinguere la voluttà, povera cosa per Stefano, dal mitico – dalla fantasia – che sarà problema di vita di Pavese. L’incompiutezza (oggi “inadeguatezza”) del desiderio. Una persona che esiste, con lo stesso nome, madre già di un figlio del “padrone”, sconsiderata ai più, che Pavese mitizza nella sua fantasia.
In uno degli ultimi appunti de “Il mestiere di vivere”, il 9 gennaio 1950, l’anno cominciato con i pensieri di morte (ben prima dunque dell’innamoramento con Constance Dowling), si rimprovererà: “La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi è segno di timidezza, di fuga davanti ai poveri e gli impegni del mondo umano”. Il biografo si chiederà perché farsene una colpa? Del mito, parlato (svuotato) o curioso (vissuto), del sogno a occhi aperti, della (parvenza di) conoscenza ultima seppure non definitiva, e condivisa, popolare. Il mito si direbbe realtà aumentata, e dunque il suicidio? Nel caso può essere l’ossessione dell’impotenza sessuale, fisica o mentale, alla quale si riduce per i tanti rifiuti – alla maniera di Nietzsche, e come per il filosofo non per improntitudine o goffaggine ma per incapacità. Vedi il rifiuto sofferto da parte di Constance, e subito dopo di Romilda Bollati, e prima, a cadenza quinquennale, di Bianca Garufi, di Fernanda Pivano, di Tina Pizzardo. Ma il mito lo scrittore Pavese ha coltivato, tanto timidamente non si direbbe, né debolmente. Una passione che gli si manifesta, nella biografia e nell’opera, nell’inverno di Brancaleone, di un confino politico che è confine, punto di contatto, col mondo “mitico”, “greco”, “idillico”.
“Il carcere” è ben il romanzo di Brancaleone. Si comincia subito, con i compagni di conversazione all’osteria - una “scelta” portata dall’età, giovani con giovani. Alla seconda pagina de “il carcere” ha già colto il senso e lo schema della conversazione, del commercio umano: passeggiare tra uomini sottobraccio, i saluti “asciutti” e “il riserbo”, gli scambi laconici (“Tutto il paese conversava così”, per ellissi, per rinvii a significati noti, “a occhiate e canzonature”, bonarie), l’autocanzonatura (“Siamo gente inquieta che sta bene in tutto il mondo ma non al suo paese”, “Si è vecchi quando si torna al paese”, “Voialtri avete il lavoro, noi abbiamo l’amore” – sembra di sentire già Otello Profazio, “Noi abbiamo l’aria”). Ne fa suoi, inavvertitamente, alcuni modi di dire. Soprattutto nei dialoghi: “Siamo nelle mani di Dio”. “Conosciamo qualcuno, se cosa vi occorre”. “Fare razza”, per fare gruppo, famiglia, banda. “Quello è storto” - scemo, debole, non sa difendersi. “Che scherzate?”, non se ne parla. . “Alla bellezza…”, saluto d’ingresso. È ben locale, calabrese, l’osservazione: “Qui sono tutti avvocati. Hanno tutti un parente in prigione”.
Un
antropologo di mestiere non saprebbe trovare di meglio, dopo mesi e anni di
osservazione: in Pavese c’è come una identificazione.
Assume senza difficoltà modi di essere e di dire che dovevano essergli estranei. La donna è “quaglia” – la carne di quaglia non gli piace, la caccia neppure, quando ce lo portano (il confinato che va a caccia, col fucile…) non riesce a sparare, la parola sì. Va a caccia con gli amici giovani, coetanei, perché la caccia era l’unico sport, l’unica uscita fuori dalla conversazione obbligata, iterativa, e dalla briscola. E fa suo lo scherzo – l’ironia, il disincanto, con le negative interrogative per affermative. Lo scherzo, l’ironia, la buffoneria – l’unica volta in vita sua. Che non afferma o mega ma allude, indirizza. Conclude lasciando aperto il discorso. Un mondo con cui s’immedesima, un mondo suo benché remoto fisicamente e socialmente: per schiettezza, spontaneità, e insieme riservatezza. Un antropologo di mestiere non saprebbe trovare di meglio, dopo mesi e anni di osservazione: in Pavese c’è come una identificazione.
E le ragazze? Pavese - che ha scritto il racconto ambientato a Brancaleone “dopo”, dopo avere scoperto che la donna da lui protetta col confino era innamorata di un altro – si fa raccontare ne “Il carcere” dal suo interlocutore locale, il giovane commerciante Gaetano, la “donna locale”:
“Fu a lui che Stefano (alter ego dello scrittore, n.d.r.) domandò se non c’erano delle ragazze in paese, e, se c’erano, come mai non si vedevano sulla spiaggia. Gaetano gli spiegò con qualche impaccio che facevano il bagno in un luogo appartato, di là dalla fiumara, e al sorriso canzonatorio di Stefano ammise che di rado uscivano di casa.
“ - Ma ce ne sono? – insisté Stefano.
-E come! - disse Gaetano sorridendo compiaciuto. – La nostra donna invecchia presto, ma è tanto più bella in gioventù”. Che si può constatare vero.
Gaetano prosegue:
“-Ha una bellezza fina, che teme il sole e le occhiate. Sono vere donne, le nostre. Per questo le teniamo rinchiuse.
-Da noi le occhiate non bruciano – disse Stefano tranquillo.
-Voialtri avete il lavoro, noi abbiamo l’amore”.
Questo alla quarta pagina.
(continua)
Assume senza difficoltà modi di essere e di dire che dovevano essergli estranei. La donna è “quaglia” – la carne di quaglia non gli piace, la caccia neppure, quando ce lo portano (il confinato che va a caccia, col fucile…) non riesce a sparare, la parola sì. Va a caccia con gli amici giovani, coetanei, perché la caccia era l’unico sport, l’unica uscita fuori dalla conversazione obbligata, iterativa, e dalla briscola. E fa suo lo scherzo – l’ironia, il disincanto, con le negative interrogative per affermative. Lo scherzo, l’ironia, la buffoneria – l’unica volta in vita sua. Che non afferma o mega ma allude, indirizza. Conclude lasciando aperto il discorso. Un mondo con cui s’immedesima, un mondo suo benché remoto fisicamente e socialmente: per schiettezza, spontaneità, e insieme riservatezza. Un antropologo di mestiere non saprebbe trovare di meglio, dopo mesi e anni di osservazione: in Pavese c’è come una identificazione.
E le ragazze? Pavese - che ha scritto il racconto ambientato a Brancaleone “dopo”, dopo avere scoperto che la donna da lui protetta col confino era innamorata di un altro – si fa raccontare ne “Il carcere” dal suo interlocutore locale, il giovane commerciante Gaetano, la “donna locale”:
“Fu a lui che Stefano (alter ego dello scrittore, n.d.r.) domandò se non c’erano delle ragazze in paese, e, se c’erano, come mai non si vedevano sulla spiaggia. Gaetano gli spiegò con qualche impaccio che facevano il bagno in un luogo appartato, di là dalla fiumara, e al sorriso canzonatorio di Stefano ammise che di rado uscivano di casa.
“ - Ma ce ne sono? – insisté Stefano.
-E come! - disse Gaetano sorridendo compiaciuto. – La nostra donna invecchia presto, ma è tanto più bella in gioventù”. Che si può constatare vero.
Gaetano prosegue:
“-Ha una bellezza fina, che teme il sole e le occhiate. Sono vere donne, le nostre. Per questo le teniamo rinchiuse.
-Da noi le occhiate non bruciano – disse Stefano tranquillo.
-Voialtri avete il lavoro, noi abbiamo l’amore”.
Questo alla quarta pagina.
(continua)
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