skip to main |
skip to sidebar
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (468)
Giuseppe Leuzzi
L’unità non
allegra
Cavour, liberale pragmatico nel breve
ritratto che Bianciardi ne fa in “Il Risorgimento allegro”, “quando gli piovve
come dal cielo l’unità dell’intera penisola, seppe abilmente (e
spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia l’inatteso dono”. Ma non
aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era di ampliare la monarchia
dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi all’Adriatico e all’Isonzo”. Non
vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai stato, Palermo, per lui, confinava con l’Africa”. E
“per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità d’Italia
fosse «una grossa corbelleria»”.
Subito dopo Teano, scrive Bianciardi
alla fine, deluso, “la guerra per il Meridione era finita, ma già ne stava
cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più sanguinosa
di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile, fratricida,
atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano repressione
del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”.
Alla vigilia dell’apertura del primo
Parlamento unitario, il 18 febbraio 1861, Cavour confida ai suoi, secondo una
fonte affidabile: “Se all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato
motivo che Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo
rovinati”. Bianciardi, garibaldino, ne è convinto. Ma lo era lo stesso
Garibaldi: si pentì presto di Teano, della consegna del Regno del Sud senza
condizioni.
Sui
“briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata
considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe
stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle proviince meridionali:
che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo
intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari
piemontesi”.
È
uso elogiare la burocrazia piemontese unitaria, quella che “fece” l’Italia. Ma
era era la burocrazia di oggi – la nostra burocrazia, pavida e inetta,
vessatoria, non è “borbonica”, è piemontese, savoiarda. L’aneddotica è
interminabile della sua inadeguatezza. Bianciardi ne ha una esilarante, la
compilazione della lista dei “Mille”. Con i volontari trentini definiti
“austriaci”, Menotti Garibaldi “uruguaiano”, Garibaldi stesso “francese”.
Pavese calabrese
– più che un caso (3)
C’è simpatia, e qualcosa di più, benché Brancaleone sia un borgo di
mare, che Pavese detesta. A Mario Sturani assicura, il 15 dicembre: “Qui, sto
bene, mi trattano con ogni civiltà”. L’antivigilia di Natale scrive alla
sorella: “La gente che mi vede ora, si asciuga col dorso della mano una
lacrima, perché pensano che farò Natale fuori casa, cosa che per loro è peggio
di un pugno sulla testa. Ci sono le pie donne che mandano chi un tortellino,
chi i fichi secchi, chi gli aranci, chi altro”. E per Santo Stefano: “Il clima
e il vitto mi dà al sangue” – aggiungendo, in riferimento obliquo alla
“signorina” che lo ha dimenticato (“alla signorina Tina baciate le unghiette”):
“Non bisogna dimenticare che in questo paese, al tempo dei Borboni, si
ammazzava per un’occhiata”.
Fa la vita di paese, che è modesta, da uomo solo al confino politico, che è
anche peggio, da esule. Ma senza astio e quasi con sollievo: ci saranno stati fascisti in paese, sicuramente il podestà, il federale, qualche camicia nera, ma non agli occhi suoi, non solo nelle lettere, sottoposte a censura, neanche nel diario e nel romanzo. Ad Adolfo Ruata, coetaneo “fresco sposo, stipendiato
e well-to-do”, scrive il 5 novembre: “Esercito il più squallido dei
passatempi: acchiappo mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il
mare, giro per i campi, fumo, tengo uno zibaldone, rileggo la corrispondenza
dalla patria, serbo una inutile castità”. Ma non da estraneo. “Ieri è venuta
una zingara incinta”, scrive alla sorella Maria il 23 dicembre, una insistente:
“«Comprateme ‘na paletta, comprateme ‘na paletta»”. Una degli zingari calderari
evidentemente, quali usavano, alle fiere e come ambulanti (con i “cavallari”:
gli zingari avevano funzioni produttive). Che alla fine, a Pavese “puttaneri”,
propone di predire il futuro. Ma prima vuole “fatti e non parole”: «Dateme
‘n’altro segno de moneta e ve dico tutto». Pavese si rifiuta, e “così, per una
lira”, conclude con la sorella, sua interlocutrice quasi quotidiana, “una bella
donna incinta mi ha guastato la giornata” – “ormai ne sapevo abbastanza, non le
ho aggiunto niente e la zingara mi ha predetto gran corna”. Una vita modesta,
di eventi minimi. Quale è quella di paese, cui però lo scrittore si adegua con
gusto – pur essendo stato, ed essendo tuttora, insofferente alla vita del suo
proprio paese, Santo Stefano Balbo. Nella stessa lettera, dell’Avvento,
racconta l’evento principale: “Vengono tutte le sere tre o quattro pastori,
oppure ragazzetti del paese, a fare davanti la porta un concertino di
cornamuse, pifferi, ciaramelle e triangoli, in onore della novena. L’ultimo
giorno bisognerà pagarli”.
Il barbone Ciccio racconta come un alter ego. A Maria, il 25-28
febbraio, si equipara al barbone, avendo da lui “imparato quanto sia romiballe
un uomo cornuto”. Il racconto lampo è cattivissimo: “Un pezzente – certo Ciccio
– un tempo primo cameriere a Reggio”, in “lunghe conferenze” gli ha spiegato
“come lui bello, lui giovane (ha 38 anni ora), lui felice, lui ammogliato sia
stato piantato dalla sposa lubrica”. È costante nella corrispondenza da
Brancaleone la richiesta–delusione-rabbia per il silenzio della “signorina”
(Tina Pizzardo, di cui al ritorno saprà, scendendo dal treno, il giorno di san
Giuseppe 1936, che si era fidanzata – con Henek Rieser, un polacco, comunista
anche lui come Pizzardo, residente a Torino – e che si sarebbe sposata il 19
del mese successivo, e svenirà).
Chiede e riceve molti libri. Molti i classici, gli “scocciatori nati in
Grecia”. L’umore, malgrado l’isolamento, l’asma, l’umidità, il “tradimento”
amoroso, è a Brancaleone stabile.
Non ama il mare. A Sturani, il 27 novembre: “Il mare, già così antipatico
d’estate, d’inverno è poi innominabile: alla riva, tutto giallo di sabbia
smossa, al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello
d’Ulisse: figurarsi gli altri. La grande attrattiva del paese sono i pesci, che
a me non piacciono, e così non mangio pietanza che un giorno o due alla
settimana, quando ammazzano la vitella”.
A Maria, sempre scherzoso, l’11 dicembre: “Non capisco perché voglio tornare a
Torino. Qui – a parte la pelle – sto benissimo. Anzi, penso di sposarmi qui e
comprare un bambino che a due anni dica già «cornutu» e «porcherusu»”. Compita
correttamente, e trascirve esattamente la pronuncia, che nel reggino
(magno-greco) è dolce.
Ad Augusto Monti, poco dopo l’arrivo, ha scritto: “Qui i paesani mi hanno accolto
molto umanamente, spiegandomi che del resto si tratta di una loro tradizione, e
che fanno così con tutti”. Un uso che collegherà alla Grecia, alla tradizione
dell’ospitalità per il forestiero.
La Grecia è la scoperta di Brancaleone – in una con quella del dialetto, non
una scoperta ma un recupero dopo il rifiuto, di un potenziale espressivo
recuperabile ed efficace - e diventa la sua passione. Il 27 dicembre,
rinfrancato evidentemente dalla modesta ma sentita ospitalità, cresciuta con le
Feste (“questa è la lettera della serenità”), si ritrova a Brancaleone come
nell’antica Grecia: “La gente di questo paese è di un tatto e di una cortesia
che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le
donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono «Esti ‘u
confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che che io mi immagino di
essere Ibico”.
Fa quindi la presentazione del poeta reggino appena scoperto, traducendone un
lungo frammento, spiega che doveva girare, “come un’anima persa, Magna Grecia e
isole, per amore della pagnotta, che allora si chiamava ospitalità”, e conclude
sempre lusinghiero che, “ancora adesso, questa gente è tale e quale e, se non
il giardino delle ninfe, l’ospitalità è intatta”. Lui stesso ha giocato,
ricorda, a fare il satiro, in tono scherzoso ma non del tutto: “Ricordo che, in
mancanza di meglio, io, valendomi della mia efebica prestanza fisica,
quest’estate mi denudavo – quant’è permesso dai regolamenti – il «candido fiore
del corpo» sulla riva del mare e componevo, così, ellenici quadri, che i geranî
della spiaggia non dimenticheranno tanto presto”.
(continua)
Milano
Pasolini, che aveva fatto esordire Arbasino
poeta su “Officina”, con i versi di “L’apprendista Tebaide”, a un certo punto
gli scrisse un lettera, semi-pubblica, in cui ne rimarcava, del poliglotta e
cosmopolita giovanotto, “un certo
provincialismo”. Il lombardo figura sempre provinciale, quello che “fa” l’inglese
a Londra, l’americano in America e ora, chissà, il cinese in Cina.
È in effetti
molto lombardo, molto “provinciale” nel suo cosmopolitismo, l’Arbasino
poliglotta, viaggiatore, social scientist. Romano per una vita, settanta
dei suoi novant’anni, e per scelta – nel 1957 Scienze Politiche era a Roma solo
un corso di studio, la facoltà, unica nel genere, era a Firenze, il “Cesare Alfieri” (anche se, bisogna dire, arrivava a Roma al seguito di Roberto Ago, insigne giurista internazionalista, suo assistente di fatto) - ma sempre malinconico. Anche nell’arguzia, pensosa e non lieve, non gratuita. Perseguitato
dal bene e dal male, mai realmente superficiale, come si atteggiava (snob) - a
parte i borborigmi alla Camilla Cederna in ambito bayreuthiano-festivaliero-haute
c(o)u(l)ture. Nonché con la rincorsa al capolavoro, con i rifacimenti.
Nelle riunioni
all’Accademia dei Trasformati, almeno a stare alla ricostruzione di Carducci, della
sua brochure “L’Accademia dei Trasformati e Giuseppe Parini”, partecipavano
gli aristocratici, i cicisbei, il cardinale arcivescovo, i monsignori.
Pietro Verri
se ne distaccò, per fondare una Accademia dei Pugni, e “Il Caffè”. Parini fu
ospite di qualche suo membro, specie dei Serbelloni, per bisogno.
L’Accademia,
sorta nel 1546 con ben altra portata, lo studio della lingua, era un’idea di
Alfonso III d’Avalos d’Aquino d’Aragona, marchese del Vasto, nobile napoletano,
governatore per conto di Carlo V.
I Trasformati
furono benefici per Parini, argomenta in un breve-lungo studio Folena, “La
poesia di Giuseppe Parini”, 1994 (una conferenza alla Cooperativa
Cattolico-democratica di Cultura di Brescia): lo sprovincializzò, lo liberò dal
suo piccolo mondo antico di Ripano Eupilino – “paesano, paesano, paesano” lo
dice Carducci.
I Trasformati,
spiega Folena, trasformarono Parini dal 1753 al 1763: “Dieci anni o poco meno
che registrano la nascita di un poeta”, dopo “i ventitré anni di Ripano” e
prima dei “trentaquatro anni dell’anonimo autore del ‘Mattino’”. Parini fu in
vita, a Milano, anonimo.
I cisisbei,
non si pensa, ma erano una istituzione milanese. Non c’erano cisisbei a Napoli,
a Venezia, a Firenze – non a Roma, città di uomini, e nemmeno a Torino,
bigotta.
È ben leghista
il candidato che si oppone al sindaco uscente Sala al voto per il sindaco.
Massiccio, gaffeur, si direbbe sprovveduto a guardarlo. Forse un
non-candidato, partendo Sala vincente. Ma è il meglio della Lega, che lo ha
voluto e lo sostiene.
“La Lettura”,
il settimanale culturale del “Corriere della sera”, dedicava due pagine il 23 giugno 2013 al pensiero di Roberto
Casaleggio. Il fondatore di Rousseau è molto cauto, ma comunque gli fanno dire
che “la democrazia va rifondata”. Da Casaleggio?
“Oggi temo
guerre per l’acqua e il petrolio”, dice Casaleggio – nel 2013. Non c’è mediocrità
di cui Milano non si faccia bandiera – il segreto del successo è la fiducia in
sé, totale e inscalfibile.
leuzzi@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento