giovedì 23 settembre 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (468)

Giuseppe Leuzzi

L’unità non allegra
Cavour, liberale pragmatico nel breve ritratto che Bianciardi ne fa in “Il Risorgimento allegro”, “quando gli piovve come dal cielo l’unità dell’intera penisola, seppe abilmente (e spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia l’inatteso dono”. Ma non aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era di ampliare la monarchia dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi all’Adriatico e all’Isonzo”. Non vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai stato,  Palermo, per lui, confinava con l’Africa”. E “per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità d’Italia fosse «una grossa corbelleria»”.
Subito dopo Teano, scrive Bianciardi alla fine, deluso, “la guerra per il Meridione era finita, ma già ne stava cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile, fratricida, atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano repressione del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”.
Alla vigilia dell’apertura del primo Parlamento unitario, il 18 febbraio 1861, Cavour confida ai suoi, secondo una fonte affidabile: “Se all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati”. Bianciardi, garibaldino, ne è convinto. Ma lo era lo stesso Garibaldi: si pentì presto di Teano, della consegna del Regno del Sud senza condizioni.
Sui “briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle proviince meridionali: che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari piemontesi”.
È uso elogiare la burocrazia piemontese unitaria, quella che “fece” l’Italia. Ma era era la burocrazia di oggi – la nostra burocrazia, pavida e inetta, vessatoria, non è “borbonica”, è piemontese, savoiarda. L’aneddotica è interminabile della sua inadeguatezza. Bianciardi ne ha una esilarante, la compilazione della lista dei “Mille”. Con i volontari trentini definiti “austriaci”, Menotti Garibaldi “uruguaiano”, Garibaldi stesso “francese”.
 
Pavese calabrese – più che un caso (3)

C’è simpatia, e qualcosa di più, benché Brancaleone sia un borgo di mare, che Pavese detesta. A Mario Sturani assicura, il 15 dicembre: “Qui, sto bene, mi trattano con ogni civiltà”. L’antivigilia di Natale scrive alla sorella: “La gente che mi vede ora, si asciuga col dorso della mano una lacrima, perché pensano che farò Natale fuori casa, cosa che per loro è peggio di un pugno sulla testa. Ci sono le pie donne che mandano chi un tortellino, chi i fichi secchi, chi gli aranci, chi altro”. E per Santo Stefano: “Il clima e il vitto mi dà al sangue” – aggiungendo, in riferimento obliquo alla “signorina” che lo ha dimenticato (“alla signorina Tina baciate le unghiette”): “Non bisogna dimenticare che in questo paese, al tempo dei Borboni, si ammazzava per un’occhiata”.
Fa la vita di paese, che è modesta, da uomo solo al confino politico, che è anche peggio, da esule. Ma senza astio e quasi con sollievo: ci saranno stati fascisti in paese, sicuramente il podestà, il federale, qualche camicia nera, ma non agli occhi suoi, non solo nelle lettere, sottoposte a censura, neanche nel diario e nel romanzo. Ad Adolfo Ruata, coetaneo “fresco sposo, stipendiato e well-to-do”, scrive il 5 novembre: “Esercito il più squallido dei passatempi: acchiappo mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro per i campi, fumo, tengo uno zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo una inutile castità”. Ma non da estraneo. “Ieri è venuta una zingara incinta”, scrive alla sorella Maria il 23 dicembre, una insistente: “«Comprateme ‘na paletta, comprateme ‘na paletta»”. Una degli zingari calderari evidentemente, quali usavano, alle fiere e come ambulanti (con i “cavallari”: gli zingari avevano funzioni produttive). Che alla fine, a Pavese “puttaneri”, propone di predire il futuro. Ma prima vuole “fatti e non parole”: «Dateme ‘n’altro segno de moneta e ve dico tutto». Pavese si rifiuta, e “così, per una lira”, conclude con la sorella, sua interlocutrice quasi quotidiana, “una bella donna incinta mi ha guastato la giornata” – “ormai ne sapevo abbastanza, non le ho aggiunto niente e la zingara mi ha predetto gran corna”. Una vita modesta, di eventi minimi. Quale è quella di paese, cui però lo scrittore si adegua con gusto – pur essendo stato, ed essendo tuttora, insofferente alla vita del suo proprio paese, Santo Stefano Balbo. Nella stessa lettera, dell’Avvento, racconta l’evento principale: “Vengono tutte le sere tre o quattro pastori, oppure ragazzetti del paese, a fare davanti la porta un concertino di cornamuse, pifferi, ciaramelle e triangoli, in onore della novena. L’ultimo giorno bisognerà pagarli”.
Il barbone Ciccio racconta come un alter ego. A Maria, il 25-28 febbraio, si equipara al barbone, avendo da lui “imparato quanto sia romiballe un uomo cornuto”. Il racconto lampo è cattivissimo: “Un pezzente – certo Ciccio – un tempo primo cameriere a Reggio”, in “lunghe conferenze” gli ha spiegato “come lui bello, lui giovane (ha 38 anni ora), lui felice, lui ammogliato sia stato piantato dalla sposa lubrica”. È costante nella corrispondenza da Brancaleone la richiesta–delusione-rabbia per il silenzio della “signorina” (Tina Pizzardo, di cui al ritorno saprà, scendendo dal treno, il giorno di san Giuseppe 1936, che si era fidanzata – con Henek Rieser, un polacco, comunista anche lui come Pizzardo, residente a Torino – e che si sarebbe sposata il 19 del mese successivo, e svenirà).
Chiede e riceve molti libri. Molti i classici, gli “scocciatori nati in Grecia”. L’umore, malgrado l’isolamento, l’asma, l’umidità, il “tradimento” amoroso, è a Brancaleone stabile.
Non ama il mare. A Sturani, il 27 novembre: “Il mare, già così antipatico d’estate, d’inverno è poi innominabile: alla riva, tutto giallo di sabbia smossa, al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello d’Ulisse: figurarsi gli altri. La grande attrattiva del paese sono i pesci, che a me non piacciono, e così non mangio pietanza che un giorno o due alla settimana, quando ammazzano la vitella”.
A Maria, sempre scherzoso, l’11 dicembre: “Non capisco perché voglio tornare a Torino. Qui – a parte la pelle – sto benissimo. Anzi, penso di sposarmi qui e comprare un bambino che a due anni dica già «cornutu» e «porcherusu»”. Compita correttamente, e trascirve esattamente la pronuncia, che nel reggino (magno-greco) è dolce.
Ad Augusto Monti, poco dopo l’arrivo, ha scritto: “Qui i paesani mi hanno accolto molto umanamente, spiegandomi che del resto si tratta di una loro tradizione, e che fanno così con tutti”. Un uso che collegherà alla Grecia, alla tradizione dell’ospitalità per il forestiero.
La Grecia è la scoperta di Brancaleone – in una con quella del dialetto, non una scoperta ma un recupero dopo il rifiuto, di un potenziale espressivo recuperabile ed efficace - e diventa la sua passione. Il 27 dicembre, rinfrancato evidentemente dalla modesta ma sentita ospitalità, cresciuta con le Feste (“questa è la lettera della serenità”), si ritrova a Brancaleone come nell’antica Grecia: “La gente di questo paese è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono «Esti ‘u confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che che io mi immagino di essere Ibico”.
Fa quindi la presentazione del poeta reggino appena scoperto, traducendone un lungo frammento, spiega che doveva girare, “come un’anima persa, Magna Grecia e isole, per amore della pagnotta, che allora si chiamava ospitalità”, e conclude sempre lusinghiero che, “ancora adesso, questa gente è tale e quale e, se non il giardino delle ninfe, l’ospitalità è intatta”. Lui stesso ha giocato, ricorda, a fare il satiro, in tono scherzoso ma non del tutto: “Ricordo che, in mancanza di meglio, io, valendomi della mia efebica prestanza fisica, quest’estate mi denudavo – quant’è permesso dai regolamenti – il «candido fiore del corpo» sulla riva del mare e componevo, così, ellenici quadri, che i geranî della spiaggia non  dimenticheranno tanto presto”.
(continua)

Milano
Pasolini, che aveva fatto esordire Arbasino poeta su “Officina”, con i versi di “L’apprendista Tebaide”, a un certo punto gli scrisse un lettera, semi-pubblica, in cui ne rimarcava, del poliglotta e cosmopolita giovanotto,  “un certo provincialismo”. Il lombardo figura sempre provinciale, quello che “fa” l’inglese a Londra, l’americano in America e ora, chissà, il cinese in Cina.
 
È in effetti molto lombardo, molto “provinciale” nel suo cosmopolitismo, l’Arbasino poliglotta, viaggiatore, social scientist. Romano per una vita, settanta dei suoi novant’anni, e per scelta – nel 1957 Scienze Politiche era a Roma solo un corso di studio, la facoltà, unica nel genere, era a Firenze, il “Cesare Alfieri” (anche se, bisogna dire, arrivava a Roma al seguito di Roberto Ago, insigne giurista  internazionalista, suo assistente di fatto) - ma sempre malinconico. Anche nell’arguzia, pensosa e non lieve, non gratuita. Perseguitato dal bene e dal male, mai realmente superficiale, come si atteggiava (snob) - a parte i borborigmi alla Camilla Cederna in ambito bayreuthiano-festivaliero-haute c(o)u(l)ture. Nonché con la rincorsa al capolavoro, con i rifacimenti.
 
Nelle riunioni all’Accademia dei Trasformati, almeno a stare alla ricostruzione di Carducci, della sua brochure “L’Accademia dei Trasformati e Giuseppe Parini”, partecipavano gli aristocratici, i cicisbei, il cardinale arcivescovo, i monsignori.
Pietro Verri se ne distaccò, per fondare una Accademia dei Pugni, e “Il Caffè”. Parini fu ospite di qualche suo membro, specie dei Serbelloni, per bisogno.
 
L’Accademia, sorta nel 1546 con ben altra portata, lo studio della lingua, era un’idea di Alfonso III d’Avalos d’Aquino d’Aragona, marchese del Vasto, nobile napoletano, governatore per conto di Carlo V.
 
I Trasformati furono benefici per Parini, argomenta in un breve-lungo studio Folena, “La poesia di Giuseppe Parini”, 1994 (una conferenza alla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura di Brescia): lo sprovincializzò, lo liberò dal suo piccolo mondo antico di Ripano Eupilino – “paesano, paesano, paesano” lo dice Carducci.
 
I Trasformati, spiega Folena, trasformarono Parini dal 1753 al 1763: “Dieci anni o poco meno che registrano la nascita di un poeta”, dopo “i ventitré anni di Ripano” e prima dei “trentaquatro anni dell’anonimo autore del ‘Mattino’”. Parini fu in vita, a Milano, anonimo.

I cisisbei, non si pensa, ma erano una istituzione milanese. Non c’erano cisisbei a Napoli, a Venezia, a Firenze – non a Roma, città di uomini, e nemmeno a Torino, bigotta.
 
È ben leghista il candidato che si oppone al sindaco uscente Sala al voto per il sindaco. Massiccio, gaffeur, si direbbe sprovveduto a guardarlo. Forse un non-candidato, partendo Sala vincente. Ma è il meglio della Lega, che lo ha voluto e lo sostiene.
 
“La Lettura”, il settimanale culturale del “Corriere della sera”, dedicava due pagine  il 23 giugno 2013 al pensiero di Roberto Casaleggio. Il fondatore di Rousseau è molto cauto, ma comunque gli fanno dire che “la democrazia va rifondata”. Da Casaleggio?
 
“Oggi temo guerre per l’acqua e il petrolio”, dice Casaleggio – nel 2013. Non c’è mediocrità di cui Milano non si faccia bandiera – il segreto del successo è la fiducia in sé, totale e inscalfibile.   
 
leuzzi@antiit.eu

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