Il Sud era reo di ogni peccato nel nazismo – il
mito del Nord fu al centro del nazismo. Il film “Ewiger Wald” del 1936, il bosco
eterno, mostra la deforestazione in arrivo dal Sud, una peste – la deforestazione
dal Sud andava in parallelo con la cristianizzazione: la conversione dei
Germani al cristianesimo si fa vedere e si assomiglia alla devastazione delle
foreste, al deserto.
Le terre
dell’osso
In
“Eclissica”, il libro di quindici anni di annotazioni e ricordi, Vinicio
Capossela si allaccia a Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”, dividendo l’Italia in verticale
invece che tra Nord e Sud, tra la dorsale appenninica, trascurata, abbandonata,
l’osso, e il resto. Una divisone che così sintetizza con Fabio Genovesi su “La
Lettura”: “In quel caso vedi l’osso interno, la dorsale”, un po’ spopolato perché
“la società dei consumi ha deciso” altrimenti: “Spopolanento, dove possibile un
po’ di saccheggio energetico (l’acqua, n.d.r.), magari qualche ricettacolo di
scorie industriali”.
L’“osso”
Capossela vede unito anche linguisticamente: “In termini di lingua, sulla dorsale
tra sud delle Marche, Abruzzo, Molise, Sannio… (e dimentica il Tavoliere, n.d
.r.), sarà stata la transumanza, ma anche nei dialetti ci sono molte
assonanze”.
Conclude
ricordando che “le «Terre dell’osso», contrapposte alla «polpa », sono una definizione
dell’economista Manlio Rossi Doria”. Di quando al Meridione si studiava.
Giù lo Stato,
libera mafia
Un
colpo al cerchio e uno alla botte, l’Aggiustizia di Palermo non si smentisce:
lo Stato-mafia c’è, lo Stato-mafia non c’è. Ma a naso la seconda, come direbbe “Quelo”,
è la buona. Il buonsenso avrebbe detto che le indagini di polizia non stanno a
spaccare il capello: ci si sporca anche le mani se necessario. Naturalmente
senza infrangere la legge - come invece fa spesso il commissario Montalbano, la
coscienza del Paese virtuoso. I delinquenti bisogna conoscerli, ci si deve parlare.
Cosa che i cronisti giudiziari sanno, ma gli conviene dire il contrario - un cronista giudiziario c’è se c’è lo scandalo
(ma, poi, chi crede ai cronisti giudiziari? si divertono e divertono, una
figura del gossip, il “nuovo” giornalismo).
I
giudici, invece, che si divertono con la giustizia, in ambiente mafioso, lasciano
senza respiro. Il giudice Montato soprattutto, quello del tutti colpevoli, non
i mafiosi, no, Berlusconi e tutti i suoi, col processo spettacolo, portato in giro
per mezza Italia a onorare i delinquenti, nelle loro residenze carcerarie, con
giornalisti al seguito a centinaia - forse
migliaia quando un Graviano doveva accusare Berlusconi. Che condannò tutti, con
una sentenza di 5.200 pagine – tutti eccetto Mancino.
In
un processo imbastito, quanti anni sprecati alla Procura di Palermo invece di
lavorare, sulle dichiarazioni di Busca. Di Brusca, quello che uccise con le
mani e sciolse nell’acido il piccolo Di Matteo, che tirò la cordicella per la
strage di Capaci. Cioè: uno come Brusca ha diritto di parlare. Anzi, ha diritto
di dire lo Stato mafioso. Montalto, pietà - anche se il giudice non è solo: ai fratelli Graviano lo Stato ha concesso di sposarsi in carcere, al 41-bis, e di farci due figli, uno ciascuno (per indurli a parlare di Berlusconi? in questo caso non lo Stato-mafia?).
“La
sostanza, la verità della cosa”, scriveva questo sito recensendo Fiandaca-Lupo,
“La mafia non ha vinto”, un paio di anni fa, “è che col processo Stato-Mafia
da quindici anni non c’è più mafia a Palermo- Trapani”, dove Messina Denaro
passeggia quasi certamente indisturbato, e comunque è “l’area a più alta
densità mafiosa.”
Liberare
la mafia certo non è un progetto. Né, certo, si può fare di colpo. Ma dire che
tutto il resto è mafia è come se. Un come se non ipotetico, ma di immediato,
ampio, grande, effetto pratico. Sui Messina Denaro, la cocaina, le estorsioni.
Sulla mafia.
Pavese calabrese
– più che un caso (4)
Ritrovarsi
“in Grecia” a Brancaleone ripetutamente inebria Pavese. Al punto di trasfigurare
il povero borgo in cui si trova. Sempre nella lettera del 27 dicembre ne fa un
esteso elogio. “Fa piacere leggere la poesia greca in terre dove, a parte le
infiltrazioni medievali, tutto ricorda i tempi in cui le ragazze ϋδρενούσαι si
piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratère”.
Greco
pure l’abbandono, il passato presentandosi in forma di rovine: “Niente è più
greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci. Rocce
gialle o rosse, verdechiaro di fichidindia e agavi, rosa di leandri e gerani, a
fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata. E colline spelacchiate
brunoliva. Persino la cornamusa – il nefando strumento natalizio – ripete la
voce tra di organo e di arpa che accompagnava gli ozî di Paride θεοοειδής”,
divino, “quando sui pascoli dell’Ida mangiava il formaggio delle sue pecore e
sognva gli amori di Ελένης λευκελέου” (“tutta
bianca”, Pavese se ne ricderà in Leucotea – Elena in Omero è solitamente “dalle
bianche braccia”) – “congiunta seco lui su di un’isola sassosa”.
Riscopre
il dialetto, come forma espressiva diretta, “reale”. In più accenni, seppure
minimi, della corrispondenza: alcune parole locali, le forme espressive e la
forma mentis, senza difficoltà, di compitazione e comprensione, senza forzature.
Specie l’espressione lieve, ironica e autoironica, della “zannella” – di cui
Pavese non tratta, ne erano all’oscuro del resto probabilmente anche i locali, di
fatto ne delinea l’uso: la scherzosità, connaturata alla socialità, su un fondo
di irrisione, anche se non cattiva, non personale (in funzione apotropaica, una
forma di scongiuro). Il
suo primo progetto di libro quattro anni prima, di racconti e poesie, rimasto
inedito, aveva intitolato “Ciau, Masino”, e molto vi usava, specie nei dialoghi,
il piemontese, il dialetto – il Sud vi era marginale, rappresentato dal “tripolin”, “il Napoli” – lo strimpellatore.
Non era arrivato bene. Le foto
segnaletiche di Pavese confinato (sono nel volume illustrato “Pasolini”,
pubblicato da “L’Espresso” nel 2015, a p. 272), foto senza cravatta, lo
rappresentano più vecchio (autorevole?) di quello che era: con la camicia
slacciata, una di profilo, con enorme zazzera alla faraona, e la mascella
gonfia, bassa, una di fronte, con gli occhiali, da maestro di campagna, e una
di tre quarti, quasi sportiva, con un sorriso di smorfia abbozzato, come di
sfida, con cappello calzato. Pasolini, vale rilevare nell’occasione, non lo
apprezzerà, e anzi lo disprezza: in un’intervista del 1972, annota in margine
“L’Espresso-Pasolini”, “che la Rai non volle mandare in onda, lo definì «un
letterato medio o addirittura mediocre», amato dalla critica solo perché
«politicamente cretto»” - mentre era scorretto, impolitico (era una colpa) più
di ogni altro scrittore di cui si sappia, e ne soffriva.
Ne emerge disteso, perfino allegro. Cioè a suo agio. In un paese, una lingua, un
mondo che si penserebbero a lui alieni. Se non odiosi, in quanto, di fatto, sono la sua
prigione, seppure all’aperto. Passando anche sopra a problemi reali, quale la
scarsa igiene: “Ho notato che le scrofe, qui numerosissime”, scrive alla sorella
Maria il 19 novembre, “viste di dietro hanno una somiglianza impressionante con
la vista di dietro delle signorine in genere – tacco alto e fine, gambetta nervosa,
vivace sculettamento e codino frisé – e sono tentato di condurmene una a letto per
compagnia. Ma non lo faccio perché la came di maiale è un afrodisiaco”. Un raccontino
che sembra di uno scrittore calabrese, Zappone, Delfino, lo stesso La Cava.
Contro
il freddo ha adottato il “braciere”, annuncia nella stessa lettera, che descrive
accurato come “un guerresco bacile di rame munito di maniglie”, eccetera –
salvo, per risparmiare, adottarlo nella forma di “catino di scarto”, di
lamierino e non di rame, eccetera. Senza rischio di avvelenamento da anidride carbonica,
conclude nella stessa chiave: “Col mal di testa, per via del carbone, ci si
sveglia presto”.
Brancaleone
è un paese, ha scritto a Sturani il 2 novembre, dove tutti, “parlando tra
uomini, accennano goderecciamente all’Alta Italia”
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