giovedì 30 settembre 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (469)

Giuseppe Leuzzi

Il  Sud era reo di ogni peccato nel nazismo – il mito del Nord fu al centro del nazismo. Il film “Ewiger Wald” del 1936, il bosco eterno, mostra la deforestazione in arrivo dal Sud, una peste – la deforestazione dal Sud andava in parallelo con la cristianizzazione: la conversione dei Germani al cristianesimo si fa vedere e si assomiglia alla devastazione delle foreste, al deserto.
 
Le terre dell’osso
In “Eclissica”, il libro di quindici anni di annotazioni e ricordi, Vinicio Capossela si allaccia a Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”, dividendo l’Italia in verticale invece che tra Nord e Sud, tra la dorsale appenninica, trascurata, abbandonata, l’osso, e il resto. Una divisone che così sintetizza con Fabio Genovesi su “La Lettura”: “In quel caso vedi l’osso interno, la dorsale”, un po’ spopolato perché “la società dei consumi ha deciso” altrimenti: “Spopolanento, dove possibile un po’ di saccheggio energetico (l’acqua, n.d.r.), magari qualche ricettacolo di scorie industriali”.
L’“osso” Capossela vede unito anche linguisticamente: “In termini di lingua, sulla dorsale tra sud delle Marche, Abruzzo, Molise, Sannio… (e dimentica il Tavoliere, n.d .r.), sarà stata la transumanza, ma anche nei dialetti ci sono molte assonanze”.
Conclude ricordando che “le «Terre dell’osso», contrapposte alla «polpa », sono una definizione dell’economista Manlio Rossi Doria”. Di quando al Meridione si studiava.
 
Giù lo Stato, libera mafia
Un colpo al cerchio e uno alla botte, l’Aggiustizia di Palermo non si smentisce: lo Stato-mafia c’è, lo Stato-mafia non c’è. Ma a naso la seconda, come direbbe “Quelo”, è la buona. Il buonsenso avrebbe detto che le indagini di polizia non stanno a spaccare il capello: ci si sporca anche le mani se necessario. Naturalmente senza infrangere la legge - come invece fa spesso il commissario Montalbano, la coscienza del Paese virtuoso. I delinquenti bisogna conoscerli, ci si deve parlare. Cosa che i cronisti giudiziari sanno, ma gli conviene dire il contrario -  un cronista giudiziario c’è se c’è lo scandalo (ma, poi, chi crede ai cronisti giudiziari? si divertono e divertono, una figura del gossip, il “nuovo” giornalismo).
I giudici, invece, che si divertono con la giustizia, in ambiente mafioso, lasciano senza respiro. Il giudice Montato soprattutto, quello del tutti colpevoli, non i mafiosi, no, Berlusconi e tutti i suoi, col processo spettacolo, portato in giro per mezza Italia a onorare i delinquenti, nelle loro residenze carcerarie, con giornalisti al seguito a centinaia -   forse migliaia quando un Graviano doveva accusare Berlusconi. Che condannò tutti, con una sentenza di 5.200 pagine – tutti eccetto Mancino. 
In un processo imbastito, quanti anni sprecati alla Procura di Palermo invece di lavorare, sulle dichiarazioni di Busca. Di Brusca, quello che uccise con le mani e sciolse nell’acido il piccolo Di Matteo, che tirò la cordicella per la strage di Capaci. Cioè: uno come Brusca ha diritto di parlare. Anzi, ha diritto di dire lo Stato mafioso. Montalto, pietà - anche se il giudice non è solo: ai fratelli Graviano lo Stato ha concesso di sposarsi in carcere, al 41-bis, e di farci due figli, uno ciascuno (per indurli a parlare di Berlusconi? in questo caso non lo Stato-mafia?).
“La sostanza, la verità della cosa”, scriveva questo sito recensendo Fiandaca-Lupo, “La mafia non ha vinto”, un paio di anni fa, “è che col processo Stato-Mafia da quindici anni non c’è più mafia a Palermo- Trapani”, dove Messina Denaro passeggia quasi certamente indisturbato, e comunque è “l’area a più alta densità mafiosa.”
Liberare la mafia certo non è un progetto. Né, certo, si può fare di colpo. Ma dire che tutto il resto è mafia è come se. Un come se non ipotetico, ma di immediato, ampio, grande, effetto pratico. Sui Messina Denaro, la cocaina, le estorsioni. Sulla mafia.
 
Pavese calabrese – più che un caso (4)
Ritrovarsi “in Grecia” a Brancaleone ripetutamente inebria Pavese. Al punto di trasfigurare il povero borgo in cui si trova. Sempre nella lettera del 27 dicembre ne fa un esteso elogio. “Fa piacere leggere la poesia greca in terre dove, a parte le infiltrazioni medievali, tutto ricorda i tempi in cui le ragazze ϋδρενούσαι si piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratère”.
Greco pure l’abbandono, il passato presentandosi in forma di rovine: “Niente è più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichidindia e agavi, rosa di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata. E colline spelacchiate brunoliva. Persino la cornamusa – il nefando strumento natalizio – ripete la voce tra di organo e di arpa che accompagnava gli ozî di Paride θεοοειδής”, divino, “quando sui pascoli dell’Ida mangiava il formaggio delle sue pecore e sognva gli amori di Ελένης  λευκελέου” (“tutta bianca”, Pavese se ne ricderà in Leucotea – Elena in Omero è solitamente “dalle bianche braccia”) – “congiunta seco lui su di un’isola sassosa”.
Riscopre il dialetto, come forma espressiva diretta, “reale”. In più accenni, seppure minimi, della corrispondenza: alcune parole locali, le forme espressive e la forma mentis, senza difficoltà, di compitazione e comprensione, senza forzature. Specie l’espressione lieve, ironica e autoironica, della “zannella” – di cui Pavese non tratta, ne erano all’oscuro del resto probabilmente anche i locali, di fatto ne delinea l’uso: la scherzosità, connaturata alla socialità, su un fondo di irrisione, anche se non cattiva, non personale (in funzione apotropaica, una forma di scongiuro). Il suo primo progetto di libro quattro anni prima, di racconti e poesie, rimasto inedito, aveva intitolato “Ciau, Masino”, e molto vi usava, specie nei dialoghi, il piemontese, il dialetto – il Sud vi era marginale, rappresentato dal “tripolin”, “il Napoli” – lo strimpellatore.  

Non era arrivato bene. Le foto segnaletiche di Pavese confinato (sono nel volume illustrato “Pasolini”, pubblicato da “L’Espresso” nel 2015, a p. 272), foto senza cravatta, lo rappresentano più vecchio (autorevole?) di quello che era: con la camicia slacciata, una di profilo, con enorme zazzera alla faraona, e la mascella gonfia, bassa, una di fronte, con gli occhiali, da maestro di campagna, e una di tre quarti, quasi sportiva, con un sorriso di smorfia abbozzato, come di sfida, con cappello calzato. Pasolini, vale rilevare nell’occasione, non lo apprezzerà, e anzi lo disprezza: in un’intervista del 1972, annota in margine “L’Espresso-Pasolini”, “che la Rai non volle mandare in onda, lo definì «un letterato medio o addirittura mediocre», amato dalla critica solo perché «politicamente cretto»” - mentre era scorretto, impolitico (era una colpa) più di ogni altro scrittore di cui si sappia, e ne soffriva.

Ne emerge disteso, perfino allegro. Cioè a suo agio. In un paese, una lingua, un mondo che si penserebbero a lui alieni. Se non odiosi, in quanto, di fatto, sono la sua prigione, seppure all’aperto. Passando anche sopra a problemi reali, quale la scarsa igiene: “Ho notato che le scrofe, qui numerosissime”, scrive alla sorella Maria il 19 novembre, “viste di dietro hanno una somiglianza impressionante con la vista di dietro delle signorine in genere – tacco alto e fine, gambetta nervosa, vivace sculettamento e codino frisé – e sono tentato di condurmene una a letto per compagnia. Ma non lo faccio perché la came di maiale è un afrodisiaco”. Un raccontino che sembra di uno scrittore calabrese, Zappone, Delfino, lo stesso La Cava.
Contro il freddo ha adottato il “braciere”, annuncia nella stessa lettera, che descrive accurato come “un guerresco bacile di rame munito di maniglie”, eccetera – salvo, per risparmiare, adottarlo nella forma di “catino di scarto”, di lamierino e non di rame, eccetera. Senza rischio di avvelenamento da anidride carbonica, conclude nella stessa chiave: “Col mal di testa, per via del carbone, ci si sveglia presto”.
Brancaleone è un paese, ha scritto a Sturani il 2 novembre, dove tutti, “parlando tra uomini, accennano goderecciamente all’Alta Italia”
– dove sono stati militari, ma questo non lo nota, la grande e sola “esperienza” della vita. E alla sorella, a metà gennaio: “Qui ho molte consolazioni, a parte mangiare carciofini”. Una lettera che conclude: “Sentite questi versi paesani, se non vi paiono notevoli”: “A malatedda meja, a malatedda,\ no jè de morte la to’ malatia,\ bedda, no je tarzane e no quartane,\ solu nu rame de malincunia.\ Vienne a state cu me na settemane\ te la fazzo passà sta malatia.\ Quanne la malatie no t’ha passate,\ tu, rundinella, pigghiala cu mia”.

Sempre a Maria ha mandato il 19 novembre uno dei “bei proverbi popolari” che sente: “Corna di mamma\ corna di canna;\ corna di soro\ corna d’oro; \ corna di mugliere\ corna vere”. Trascrizioni tutte sempre ortogaficamente rispondenti alla pronuncia.
Col nuovo anno l’esigenza è già di “sorpassare Torino e giochi connessi”, 16 febbraio. E a cascata, il 17 febbraio, “è bene rifarsi a Omero”. Con varie elucubrazioni sul modo tecnico di rifarsi a Omero. Compresi gli accorgimenti minimi. Ma per pensare in grande, e narrativamente.     
Brancaleone figurerà in cima al diario, “Il mestiere di vivere”. Che avrebbe avviato proprio nel paese del confino, come “Secretum professionale”. Così scrive nel frontespizio (il diario ha lasciato  manoscritto ma in ordine per la pubblicazione)
 “Secretum professionale
Ott.-dice. 1935 e febbr. 1936, a Brancaleone
(Il Mestiere di poeta, 1934, stampato in Lavorare stanca precede idealmente”)
 
Il primo impatto col luogo del confino, appuntato nel “Mestiere di vivere” il 10 ottobre, è di estraneità: “Questa terra, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d’immagini che simile tratto consentirebbe”. Ciò avverrà molto dopo, nei “Dialoghi con Leucotea”, l’opera di Pavese più distesa, a suo stesso parere – di cui sempre pensa bene, col sorriso. Ora no: “Subito mi sorprese la coscienza che questo dio non c’è, che io lo so, ne sono convinto”. Ma non  senza effetto. “Di qui ho pensato come dovrà essere allusivo e all-pervading ogni mio futuro argomento, allo stesso modo che doveva essere allusiva e all-pervading la fede nel dio incarnato nelle rocce rosse”. Per ora “queste rocce rosse lunari…non riflettono nulla di mio” – “se queste rocce fossero in Piemonte saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro un significato”.
Poi si precisa un’opportunità – malgrado le trappole del localismo: “Non è letteratura dialettale la mia – tanto lottai d’istinto e di ragione contro il dialettismo”, anzi con “gli occhi aperti su tutto il mondo”, e “specialmente sensibile ai tentativi e ai risultati nordamericani”. Un’esperienza che ora ritiene esaurita, forse per avere “esaurito il punto di vista piemontese”. Da qui un nuovo sguardo sul dialetto, “un nuovo punto di partenza”.
L’inverno di Brancaleone sarà un puntiglioso, ripetuto, riesame del rapporto con i luoghi di origine: la residenza obbligata in un borgo remoto lo riporta al problema delle radici, come rappotarsi a esse proficuamente, per crescere e non per implodere, all’ombra del bozzetto. Se stesso vedendo unicamente sotto l’aspetto del poeta – non ancora il narratore. È a Brancaleone, a contatto cun una realtà diversa, di rocce, mare, donne e uomini, non di letture, per quanto aggiornate, che l’immaginario riprende forza.
(fine)

leuzzi@antiit.eu

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